Julio Velasco sa essere sottilmente crudele. Come quella volta alle Olimpiadi di Atlanta, vigilia di Italia-Argentina, quarti di finale. Tutti volevano parlare con lui, del suo cuore diviso. Fu quel giorno che confessò che «l’Argentina è come la mamma, che non si giudica, e l’Italia è la bella ragazza di cui mi sono innamorato e con cui voglio vivere in futuro». Gli era già capitato di dirlo, ma quel giorno lo ascoltava tutto il mondo. Conferenza stampa affollatissima, tutti accaldati, arruffati, sudati, tranne lui. Si prenotò per fargli una domanda un giornalista italiano, corrispondente dagli Stati Uniti di un importante quotidiano, e per fare vedere che lui non c’entrava niente con gli inviati di sport venuti dall’Italia si rivolse a Velasco in inglese. Julio non fece una piega, ma gli rispose in spagnolo. Poi si ricominciò come se niente fosse successo: domande e risposte in italiano, e interprete che traduceva per il resto del mondo.

L’intuizione

Quella risposta di Velasco nella sua lingua madre spiega la sua straordinaria capacità di comprensione e di reazione, la velocità con cui sa trovare un antidoto al problema che gli si presenta davanti. Non diversa dall’istinto che permette a un grande giocatore di inventare il colpo vincente quando serve. Lo ha detto ancora lui. «L’intuizione non è consapevole, è più veloce del pensiero: il giocatore riconosce una situazione e la interpreta, il suo cervello va a cercare una soluzione, apre il file giusto in un millisecondo. Poi lo deve fare bene, e questa è tecnica, che è quello che si vede. Ma è quello che non si vede che è decisivo».

Per parlare a un gruppo di campionesse già vincenti, che però ogni tanto erano tentate dall’egocentrismo e dai dualismi, andare a richiamare l’allenatore venuto dall’Argentina per toglierci i nostri difetti atavici è stata una grande intuizione. Ci voleva l’uomo che ci ha tolto tutti gli alibi, che ci ha insegnato che potevamo battere i russi, i cubani, persino i brasiliani. Che ci ha mostrato che anche noi possiamo diventare i migliori al mondo. «Bisogna dire più spesso bravi, anche a quelli bravi. E con le donne moltiplicate per quattro». Il prezzo da pagare per questo sarà che qualunque cosa facciano Egonu e Antropova, Sylla e Danesi, questa sarà comunque l’Italia di Velasco. Dalla panchina della nazionale maschile se ne andò per questo: non perché avevano preso l’argento ad Atlanta invece dell’oro, ma perché qualcuno cominciava a lamentarsi che il centro dell’universo pallavolistico fosse sempre lui, l’allenatore che pensa come un filosofo e parla come un professore. «Non si può avere il posto fisso alle Poste e fare la vita spericolata che canta Vasco Rossi».

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Uomini e donne

L’anno dopo lo chiamarono sulla panchina della nazionale femminile. Avrebbe potuto pensare: io sono Velasco, dovranno adattarsi a me, e fare quello che dico io. Invece, come sempre, cercò di capire. Parlò con una sua amica argentina, «una femminista, maestra per vocazione», volle che gli spiegasse la differenza fra maschi e femmine, da piccoli. «Mi disse che le bambine non vogliono sbagliare. Quando si fa una domanda alla classe, risponde sempre un maschio: perché si butta, senza paura. Se ci prende è contento, altrimenti amen. Le femmine non rischiano perché odiano sbagliare, a loro basta sapere che lo sapevano».

Da questa chiacchierata Velasco capì che doveva spingere le sue atlete a buttarsi, anche a costo di sbagliare. «Dobbiamo aiutare le donne a fare errori, perché non si impara senza sbagliare». Bisogna spingere gli altri a tuffarsi, e a nuotare, anche se nell’acqua ci sono i coccodrilli. Lo raccontò agli studenti quando l’Università di Bologna gli conferì il Sigillo di Ateneo, nel 2019. «Non ho mai conosciuto una ragazza che si presentasse a un esame impreparata. I maschi sono l’opposto: noi andiamo all’esame e l’importante è parlare, ti chiedono dell’impero romano e tu parli di Totti, cavarsela è quasi un orgoglio. Si può imparare tanto gli uni dagli altri, a condizione che sappiamo riconoscere la diversità».

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L’antica ossessione

Per prepararsi a quella che potrebbe essere la sua ultima notte senza un oro olimpico, Julio ha messo in campo tutta la sua arte. Si è raccomandato al paese, «ci dobbiamo divertire e smetterla con questa storia dell’oro che manca, non se ne può più, guardiamo ciò che abbiamo, non quello che non abbiamo», lo ha fatto per togliere il peso dalle spalle e dalle teste delle sue giocatrici. «Togliere il velo del mito all’oro significa togliere la paura, che taglia le gambe come l’emozione». Di ossessionati dall’oro basta lui, a cui manca soltanto quell’ultimo premio per avere tutto quello che sognava.

Quando andava alla facoltà di Filosofia a Buenos Aires con la borsa da ginnastica e tutti lo guardavano con sufficienza perché chi pensava non era abituato a fare sport. Quando smise di studiare e gli mancavano 6 esami, «l’unica cosa buona che ha fatto la dittatura, così non ho potuto fare il professore di liceo e sono diventato allenatore». Quando venne in Italia, a Jesi, per inseguire quel sogno, accettando un contratto al minimo sindacale. Quando cominciò a vincere, con Modena e con la nazionale prima ancora che con le parole. Quando è diventato Velasco, e saresti rimasto ad ascoltarlo per giorni. All’inizio degli anni Novanta, con l’Italia campione del mondo, la redazione di Supervolley fu spostata a Modena, e Velasco passava la mattina per un caffè che durava ore. Quando se ne andava noi giovani redattori avevamo lo sguardo languido degli innamorati, persi in tutte quelle storie, la mamma inglese, di cognome Blake, la guerra delle Malvinas, il fratello desaparecido, la macchina venduta, l’appartamento di Jesi con i mobili della nonna, Eraclito che era un filosofo e Despaigne che era uno schiacciatore cubano, il tango, la vita. Poi ci mettevamo a ridere. «Ma dai, non può aver vissuto tutto questo, dovrebbe avere almeno 72 anni».

Oggi Velasco 72 anni li ha davvero, è nonno, ha perso un fratello alla vigilia delle Olimpiadi, ha affittato tre appartamenti a Parigi per tutta la sua famiglia perché era sicuro di arrivare in finale. Non si ritrova più in un mondo troppo semplificato in cui non ci sono più avversari ma soltanto nemici, in politica, nel traffico o su un campo di pallavolo. In questi Giochi può vincere l’oro, oppure no. Ma non sarà una medaglia a cambiare la sua storia, che è anche la nostra. Nadie nos quita lo bailado, dicono in Argentina: nessuno può toglierci quello che abbiamo ballato.

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