Alberto Barbera probabilmente non ha reso un grande servizio a Vermiglio, di Maura Delpero, quando presentando il programma di Venezia 81 ha evocato Ermanno Olmi e L’albero degli zoccoli, sbilanciandosi fino a usare il termine «reincarnazione». Con queste premesse è facile avere un approccio viziato al secondo film italiano in corsa per il Leone d’oro. Sarebbe ingiusto farne una colpa a una cineasta sensibile che per quindici anni, prima di approdare alla finzione con Maternal, si è dedicata con passione al documentario. Vermiglio esce subito in sala, il 19 settembre, con Lucky Red.

Lo scrupolo antropologico, il racconto di una comunità contadina in alta montagna (Vermiglio esiste davvero, in Val di Sole, al confine fra Trentino e Lombardia) sul finire della seconda Guerra Mondiale, è il vero pregio del film. Potresti lasciarti incantare dalla mungitura, dalle capre e dalle galline, dalle melodie popolari a cappella, dai neonati curati per tradizione con quattro foglie di cavolo e dal sussurrare fiabesco dei piccoli nel paio di letti che condividono con i più grandi, in rigoroso dialetto, per tutte le due ore che impegna il racconto.

Riferimenti

Ci sono dettagli arcaici che appartengono alla generazione dei nostri bisavoli: la ginnastica sommaria a inizio lezione nell’unica aula scolastica, il desco patriarcale e frugale del Maestro (Tommaso Ragno) che colleziona figli come francobolli. Per affinità ho pensato a Roberto Minervini, al suo I Dannati, che era a Cannes, e alla bellezza delle “parti noiose” che Alfred Hitchcock eliminava. Sono un caso patologico: quando comincia a succedere qualcosa, perdo interesse.

Accadrà che Ada (Martina Scrinzi) si innamora di Pietro, il soldato in fuga dalla guerra che la famiglia ospitava, e lo sposa. Ma finito il conflitto lui torna nella sua Sicilia, dove aveva già moglie (Sara Serraiocco) e prole, e finirà vittima di un delitto d’onore. Il figlio di Ada non avrà un padre, ma per andare alla ricerca della verità lei percorrerà la penisola e scoprirà il mare.

Dice Maura Delpero che questo «è un film sulla guerra senza la guerra»: «Racconta le schegge della guerra, e come questa influenza la vita di tutti quelli che restano a casa. Mi piace molto quello che resta in off, perché spesso è più potente dell’ in on». L’insegnante di Tommaso Ragno è ispirato a suo nonno, maestro di paese e punto di riferimento per la comunità. Le Quattro Stagioni di Vivaldi hanno un rilievo narrativo importante. Il Maestro è appassionato di musica, i 78 giri sono un lusso che la moglie gli rimprovera addolorata: «Potremmo mettere in tavola invece qualcosa che non sia solo patate». «Sono cibo per l’anima», ribatte lui. Portare a scuola Vivaldi, insegnare ai bambini a riconoscere i suoni della natura che si risveglia nella Primavera, è insegnare bellezza. Nella «reincarnazione» de L’albero degli zoccoli comunque la regista non si riconosce: «Amo moltissimo quel film ma il mio metodo di lavoro non guarda mai fuori, sempre dentro. Dietro questo film c’è la morte di mio padre, e il fatto che mi è apparso in sogno come bambino. Il film racconta della mia famiglia e di luoghi che conosco molto bene, in un tempo che invece non ho conosciuto. È stato come riempire un vuoto».

La vera sorpresa, che vale il film, sono i bambini. Per Delpero hanno la funzione del coro nella tragedia greca. Li ha scelti in loco uno per uno, facendo impazzire la produzione: «Li volevo tra i quattro e i cinque anni, l’età più ingestibile sul set, ma la sola con una lettura del mondo che non è ancora mediata dall’istituzione scolastica».

© Riproduzione riservata