In occasione dei quarant’anni dalla sua prima edizione, Quodlibet ripubblica Viaggio in Italia. Ideato da Luigi Ghirri, uscito per la prima e unica volta nel 1984, è un caposaldo della storia della fotografia contemporanea. Le idee che lo guidarono sono il manifesto della Scuola italiana di paesaggio.

Agli inizi degli anni Ottanta Luigi Ghirri raccoglie intorno a sé un gruppo di venti fotografi che già dalla fine del decennio precedente sperimentavano modi non convenzionali di rappresentare la realtà e i cambiamenti sociali in atto un po’ ovunque nel Paese. La nuova edizione è la riproduzione in facsimile della prima, pubblicata da Il Quadrante di Alessandria nel 1984. Con i testi Carlo Arturo Quintavalle e Giani Celati.

Si sono conservati fedelmente tutti i dettagli del libro originale, adottando il design, l’impaginazione del testo e la sequenza delle immagini originali, le proprietà materiali e le dimensioni delle pagine. Per ottenere una più

adeguata resa delle immagini, la riproduzione delle fotografie è stata realizzata a partire dalla ridigitalizzazione dei negativi o delle stampe originali.

A Parigi fino all’8 gennaio 2025 è in corso la mostra Viaggio in Italia, a cura di Matteo Balduzzi, ospitata all’Hôtel de Galliffet, sede dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi.

La mostra che celebra i 40 anni di Viaggio in Italia è organizzata in occasione di Paris Photo, uno dei principali eventi internazionali dedicati alla fotografia contemporanea. Fotografie di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Gianantonio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli,

Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura, Cuchi White

Adele Ghirri

Ridare dignità a luoghi e persone che nessuno si sarebbe neppure sognato di guardare

In una delle sue lezioni di fotografia del 1989, Luigi diceva ai suoi studenti: «Oggi la maggior parte delle immagini che vediamo è costituita da facce. Il nostro panorama visivo è pieno di facce. Il rapporto tra la faccia e il luogo in cui questa faccia vive, abita, mangia, sogna, si muove, non viene più considerato. Io credo che dietro i disastri dell’ambiente vi sia una disaffezione che l’uomo ha sviluppato nei confronti del suo ambiente negli ultimi trenta o quarant’anni, alla quale ha corrisposto una fondamentale incapacità di relazionarsi con l’ambiente attraverso la rappresentazione.

Quindi il recupero della rappresentazione visiva come strumento di relazione col mondo, di rapporto con l’ambiente, può avere un grande peso culturale e una grande efficacia». Ho sempre ritenuto questo nesso causale rintracciato da mio padre Luigi tra onnipresenza del volto nelle immagini fotografiche e disastro ambientale, un’intuizione insolita e illuminante. L’individuo prevale sempre di più sul contesto, che occupa sempre meno spazio nell’immagine, finendo ai margini. Di conseguenza si riduce l’attenzione che una società riesce a riservare all’ambiente in cui vive, fatto soprattutto di luoghi apparentemente anonimi e ordinari.

Lo stesso vale per la rappresentazione di un paese. Oggi c’è ancora più bisogno di rapportarsi con l’esterno soffermando lo sguardo su ciò che viene escluso dalle rappresentazioni dominanti o più in voga. Se di un paese prevarranno immagini estetizzanti, folcloristiche, come se solo i cosiddetti “luoghi d’interesse” fossero in grado di suscitare stupore e curiosità, il nostro campo visivo si ridurrà irrimediabilmente secondo precisi criteri gerarchici, con un conseguente impoverimento del nostro orizzonte mentale e affettivo. Questo, credo, fosse il tentativo di Viaggio in Italia - proporre una modalità alternativa di guardare i luoghi del nostro abitare, per poter stabilire con essi un sentimento di affetto, appartenenza e cura che stava (che sta) andando perduto.

“La qualsiasità, non l’eccezionalità” scriveva Cesare Zavattini, rivendicando la necessità di includere nella narrazione (o nell’inquadratura) anche quel che viene ritenuto superfluo e trascurabile. Questo libro si apre con una fotografia di Vittore Fossati in cui un arcobaleno finisce, o nasce, da una pozzanghera lungo una qualunque strada di campagna. La meraviglia, o come diceva Luigi “l’avventura, il viaggio”, può avere luogo ovunque: tutto dipende dal modo di guardare e di sentire. Viaggio in Italia è nato quarant’anni fa dal desiderio comune di un gruppo di amici di “ridare dignità a luoghi e persone che nessuno si sarebbe neppure sognato di guardare”, e in questa idea apparentemente semplice vi è nascosto un enorme insegnamento, con importantissime implicazioni etiche; questa frase, con cui ho iniziato e concludo, la scrisse mia madre Paola che progettò tutta la veste grafica di questo libro, rimasta inalterata in questa nuova edizione.

Ringrazio lei, tutti gli autori e i curatori di questo volume, per aver aperto alle generazioni future una finestra attraverso cui guardare le cose e il mondo in cui viviamo, e gli altri suoi abitanti, con cura e affetto, mettendosi in ascolto. Un invito ad adottare un punto di vista sull’esterno gentile e salvifico. Facciamone buon uso.

Gianni Celati

Verso la foce

(reportage, per un amico fotografo)

Al mattino presto in queste pianure la luce è tutta assorbita dai colori del suolo. C'è un vapore azzurrino che fa svanire le distanze, e oltre un certo raggio si capisce soltanto che le cose sono là, disperse nello spazio. E col sole alto e la luce netta che cominciano a vedersi grandi separazioni. I tagli di luce e ombra fanno apparire forme desolate in tutti i muri, pezzi d'asfalto, siepi o cartelli ai margini d'un movimento generale. Le cose che non indicano traffici o direzioni di marcia sono tutte in abbandono.

Dove non c'è traffico, le ombre hanno sempre l'aria di aspetti inutili, troppo immobili per questo mondo. Se un camion passa sollevando un pezzo di giornale sull'asfalto, subito ci si accorge che ogni forma di indugio è fuori posto. Sulla Padana Inferiore abbiamo visto la prospettiva alberata d'una villa antica, lungo la strada, interamente coperta da un emporio di lampadari. Il manifesto d'un circo, vecchio di otto anni, penzolava dalle imposte chiuse d'un casci­nale.

Per strade secondarie certe volte anche il silenzio sembra inutile; finché non si arriva davan­ti a quelle nuove villette su terrapieni a giardino, intorno alle quali c'è un silenzio diffuso che non è quello degli spazi aperti. E un silenzio residenziale, che ti fa sentire così estraneo da metterti in fuga. Svegli al mattino in riva a un ruscello quasi secco, subito fumiamo molto per non distrarci, siamo in compagnia soltanto di cornacchie. Le vedo uscire dai cespugli d'un pioppeto col loro volo breve e pesante, vanno a posarsi su un mucchio di spazzatura dove pezzi di vetro e sacchetti di plastica brillano al sole coi riflessi d'uno specchio. Luciano sta fotografando un piccolo ponte in cemento con ringhiera ossidata, papaveri sul ciglio del ponte e sullo sfondo bianche nuvole.

Lag­giù l’acqua del ruscello è stagnante e rossastra. La mota sulla riva tutta crepata per la siccità di molti mesi. Il polline dei pioppi s'è posato dovunque sui cespugli, anche su un grumo di catrame. Piante di camomilla crescono a caso in un fosso pieno di macerie, e un copertone sventrato (accol­tellato per sabotaggio?) segna il limite di qualcosa che non so.

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Là fuori tutto funziona per conto suo, giorno e notte. Il Po scorre verso il mare pieno di bolle e chiazze viscose. Dei fuoribordo del circolo canottieri passano sotto il grande ponte di ferro, e su quest'argine si sente ininterrottamente il rumore d'una turbina della centrale elettrica in riva al Po. Luciano è in macchina che fuma, non ha più voglia di fotografare questi posti.

Dall'altra parte di quest'argine fangoso, le vecchie fabbriche in mattoni anneriti di Pontelagoscuro hanno tutti i vetri rotti, dentro alle finestre si vede solo il buio. Nell'epoca in cui tutti i muri di mattoni comin­ciavano ad annerire, quelle fabbriche dovevano essere divinità del luogo. Sotto, nella campagna abbandonata, ci sono vecchie cisterne della SOCIETA TRATTAMENTO ACQUE, con l'aria d'es­sere state anche loro un tempo divinità del luogo.

Adesso tra queste cisterne e la macchia che sorge in distanza, su uno sfondo di ciminiere e bruciatori con getti di fuoco e vapore, l'erba è alta. Ho raccolto delle piante che debbono essere sopravvissute alle ere in cui tutto anneriva, hanno foglie deformate e senza più simmetria bilaterale. Un lembo della foglia è lanceolato e l'altro invece se­ghettato o roncinato come un cardo. Nella campagna laggiù adesso vedo un gregge di pecore che bruca l'erba intorno alle cisterne. Il pastore è un uomo anziano con l'impermeabile giallo da nostromo, un bastone, seduto su un tubo di metallo sta ascoltando un transistor.

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Più di settant'anni fa, verso il 1910, mia madre ha attraversato queste pianure su un carretto, assieme ai fratelli, il mobilio e i genitori. Doveva avere otto anni. Quando sono arrivati alle porte di Ferrara, i doganieri hanno detto: «Ma perché venite a stare in città? Non lo sapete che qui l'aria è cattiva, c'è sempre chiasso, e il sole non riesce mai ad andar giù dall'orizzonte?».

Quella se­ra e per molte altre sere, i suoi fratelli hanno tenuto d'occhio la prospettiva di Porta Mare, per vedere se il sole riusciva ad andare giù da quella parte. Negli stessi giorni mia madre s'è ammala­ta di febbre spagnola, ha perso tutti i capelli ed è stata portata all'ospedale. Quando dopo molti mesi è guarita, l'hanno portata a vedere il sole che tramonta, non a Porta Mare che è ad est, ma a Porta Po.

Sotto la pioggia siamo passati per Ruina, Saletta, Tamara, e adesso sulla strada albera­ta di Tresigallo verso Ferrara. La strada tra gli alberi nel buio, luci di ristoranti, stazioni di servizio, dancing, pizzerie. L'esterno qui sembra tutto un posto di ristoro.

Nel ristorante sul canale a Ferrara una grande foto occupa la parete di fondo. Nella foto c'è il medesimo ristorante che abbiamo sotto gli occhi, con gli stessi tovaglioli rossi infilati nei bicchieri, gli stessi fiori sui tavoli, carrelli di dolci e antipasti e carni, gli stessi lampadari rossi di plastica. Il padrone del ristorante è un uomo d'una obesità sproposita!a, ha capelli grigi che luccicano di bril­lantina, giacca da yachtman e occhiali a stanghette d'oro. E venuto a informarsi se abbiamo appe­tito, cosa desideriamo mangiare, se assaggiamo gli antipasti, se abbiamo preferenze sull'annata del vino.

Disagio anche davanti al cameriere che sorride da burattino per mostrare che approva ogni nostra risposta. Di fronte a quella messinscena non avevamo parole, adesso i due ci guarda­no imbambolati; chissà in che film sono, loro. L'obeso si dedica agli altri clienti qualificando ogni cliente con un titolo professionale, standogli davanti come se riconoscesse in lui delle qualità che attirano vividamente la sua attenzione. Dopo questo trattamento il cliente è trasformato in qual­cuno, esistenza umana significativa, non più stato brado dell'essere.

Sotto il lampione fuori dal ri­storante Luciano ha detto: «Abbiamo bevuto troppo, io non ce la faccio più, non sopporto più que­sto viaggio». Eravamo vicini a un distributore di benzina Agip e nel buio Luciano diceva: «Non so neanche più dove ho parcheggiato la macchina. Non capisco niente di cosa c'è intorno, di cosa fo­tografo, di cosa fa la gente. Poi ho voglia di rivedere mia figlia, ho troppi pensieri in testa, ho anche il cagasangue. Torno a casa».

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Non ho incontrato vecchi disfatti, né mendicanti o barboni, né storpi, né ciechi, né sperduti, né obesi. L'asfalto ormai copre quasi tutta la crosta della terra, eppure ogni momento in questa città silenziosa potrebbe essere stupefacente; perché il tempo si ferma, come se inciampasse, negli in­dugi con cui i suoi abitanti ancora si muovono.

Ci sono due o tre strade centrali piene di negozi moderni, bar, motorini. Neanche qui vedo negozietti inutili. Lungo strade nascoste ho trovato bel­le ville antiche, voltandomi ho visto un gigantesco ripetitore della televisione che mi è parso più alto di qualsiasi edificio della città. Ritornato in albergo non voglio vedere più niente, mi metto a leggere October Ferry to Gabriola di Malcom Lowry.

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Per queste strade che costeggiano la stretta insenatura, le corriere sussultano per via delle buche nell'asfalto. All'intorno l'acqua è limitata da linee di terra all'orizzonte. I due viaggiatori at­traversano l'insenatura su una bettolina con gru per un modico prezzo. L'uomo della bettolina dice che «in caso di affondamento non risponde».

Guardo lo Svizzero a prua col naso puntato verso il mare, e mi sembra che scuota la testa come se fosse depresso. Poi mi dico che tutto quello che accade è un caso. Dall'altra parte dell'insenatura, in mezzo alle lagune, una chiesetta con aria messicana su una minuscola lingua di terra. Pesci che saltano fuori dall'acqua, due solitari fenicotteri nello spazio luminoso e adesso pieno di riflessi rossi.

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Al bivio per Chioggia passiamo davanti a bunker del tempo di guerra, sparsi giù dalla strada; alcuni sono abitati, con panni stesi e sedie sul prato antistante. Non esiste la catastrofe. Là fuori tutto si volge, non in questo o in quel modo; non ha a che fare con i nostri giudizi, presunzioni di sapere.

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Nella notte senza luna, dopo un ultimo cantiere di barche, il ponte su una laguna in cui non si vede niente. Si sente solo l'odore del mare. Macchine che passano sulla strada, fanalini rossi, luci gialle di qualcosa che non so. Abbiamo visto distese di barene, ritagli di zone di depositi che emer­gono come arabeschi dall'acqua, grigi e giallastri.

Siamo arrivati in posti dove l'acqua è ferma e coperta da un sottile strato che sembra plastica, col terreno molle che sprofonda sui bordi. All'estremità delle terre l'erosione dell'acqua non cessa mai, e la terra scivola su fondali con sedi­menti sempre in subbuglio. Vedo un segnale nella notte dal mare. Questa notte dovrebbe passare al perielio la cometa Tempel 2. La forza di gravità si sente più intensamente di notte, stando im­mobili. Si può arrivare a sentire che tutto sprofonda. Dormiamo in macchina, io ho imparato a scrivere al buio.

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Tornando indietro, verso ovest, c'era una bambina seduta sui gradini davanti a un bar isolato nelle campagne. La bambina aveva sulle ginocchia un vecchio dizionario squinternato, di cui leg­geva le voci sillabando le parole. Degli uomini in piedi sulla porta stavano parlando. La bambina alzava la testa ad ascoltare le parole degli uomini, che poi andava a cercare nel vecchio dizionario, sillabando la spiegazione. Dopo Fienile c'è Ca' Zulian, quindi indietro fino alla punta di Ca' Venier dove aspetteremo il traghetto.

Reinhart è tedesco, non svizzero. Porta piccoli occhiali da vista a forma oblunga, su cui applica lenti da sole. Ha sempre camicie di seta molto belle. Vuole restare in giro da queste parti per fare delle foto, o cercare quegli etologi tedeschi. Mentre il traghetto si allontanava, l'ho visto immobile accanto all'ombra ormai lunga della sua macchina.

Da questa parte del Po di Venezia, andando verso ovest, si arriva a Molo Farsetti e Ca' Vendramin. Finalmente sono nella zona di Porto Tolle, la mia meta iniziale. Mi è tornato il mal di gola. Arrivato al ponte di ferro all'imboccatura del Po di Gnocca mi sono buttato sull'erba. Il ponte ha la struttura dei ponti delle ferrovie, che ho sempre ammirato. E una specie di galleria fatta con pezzi di meccano, ma non smisurati. Molto basso sull'acqua, i suoi piloni sono tutti sommersi dalla piena del fiume che continua, dopo le burrasche dei giorni scorsi. Intorno ai piloni l'acqua fa dei gorghi, dei veri buchi dove vedo scatole di latta insinuarsi.

Ma il gorgo si sposta sempre, e quando la scatola di latta è nell'occhio del gorgo, viene respinta e si ritrova da un'altra parte. L'argine è pieno d'erba, all'intorno abbondano i salici bianchi. Ritrovo le romici e più lontano la robinia. Ve­do il vinco nell'acqua, il vilucchio e il caprifoglio nelle siepi. Sulla siepe ho lasciato appesa la mia piccola bussola col portachiavi; qualcuno la troverà, a me non serve più.

Questo paese è così piatto che si è sempre esposti in qualsiasi punto dell'orizzonte. Non ci si può sottrarre al movimento generale che là fuori continua sempre, anche se non c'è nessuno in giro. Tranne forse tornando a casa e barricandosi dentro, come fanno gli abitanti di questi luoghi. Cam­minando mi è tornato il pensiero che non devo più paralizzarmi, come ad Adria e Taglio di Po. Mi sono avviato a passeggiare su un canale che sfocia nel Po di Gnocca, sono arrivato fino a un traliccio dell'alta tensione; sulla base di cemento del traliccio ho abbandonato le mie cartine militari, anche di quelle non ho più bisogno.

Dopo sono sceso dall'argine per vedere da vicino le finestre ad arco d'una vecchia fattoria isolata. Subito un cane mi è corso addosso abbaiando, quando siamo stati a tu per tu ho visto che stava per saltarmi alla gola. Tutto è avvenuto senza che me ne accorgessi. Ho visto solo le sue gambe posteriori flettersi, poi una donna ha richiamato il cane che s'è subito bloccato. Mi sono avvicinato alla donna, che era sulla porta della stalla, e le ho chiesto un bicchiere d'acqua. Senza rispondermi la donna si avviava verso la casa. Sulla porta della cucina mi ha offerto del vino.

Mentre bevevo è arrivato suo marito in bicicletta. Appoggiando la bicicletta mi salutava con un cenno del capo. La donna aspettava in silenzio che le restituissi il bicchiere. Dopo qualche secondo l'uomo ha detto: «Fa bel tempo, eh?». Sull'argine dei bambini tornavano da scuola, in bicicletta, con le cartelle sulla schiena. Giocavano con le bici e il gioco consisteva nel tentare di spingersi a vicenda giù dall'argine, andando con la ruota anteriore contro la bicicletta dell'altro. Quando un bambino biondo sul ciglio stava per precipitare, s'è salvato sollevando in aria la ruota davanti. Poi si allontanava ridendo così forte che potevamo sentirlo dalla casa.

Ho preso un autobus. Sulla strada verso il mare, dopo Tolle, una grossa macchina era capovolta sull'asfalto e un'altra dentro uh fosso. Agenti della polizia stradale fermavano le macchine nei due sensi, le facevano transitare una ad una. Ho seguito un cartello sull'argine che diceva TRAGHET­TO. Sotto l'argine un vecchio pontile è spezzato in due, le tavole sono marcite. Varie barche tra le canne e i ligustri. Sotto una tettoia di canne su palafitte è legata una barca con la catena, la barca è colma d'acqua fino all'orlo. Sulla prua ho appoggiato la mia copia di Bouvard et Pécuchet, sperando che qualcuno la trovi, chissà.

A un distributore di benzina s'è fermato un ragazzo con capelli rasati a zero, su una Vespa. È venuta a servirlo una donna con un bambino in braccio. Sono andato dal ragazzo coi capelli rasati a chiedergli se mi dava un passaggio verso Scardovari o Bonelli. Senza osservarmi molto ha detto che qui siamo a Scardovari. Può portarmi più avanti ma non subito, ·prima deve fare un giro. Aspettandolo ho giocato con un magnifico flipper. Nel flipper un cartiglio dipinto dice: VOLTAN ABANDONS THE EARTH. Il disegno nel quadro luminoso spiega l'episodio. Voltan e Wanda, vestiti da guerrieri unni, stanno spiccando il volo verso un'astronave che li aspetta, lasciano defi­nitivamente la terra. Porgendo la mano a Voltan, Wanda dice: «Quick Voltan, it is going to explode». Voltan risponde: «Too bad, Wanda, it was a nice place where to live». In basso c'è New York in fiamme, si riconosce l'Empire State Building e la Statua della Libertà.

Nel punto in cui il ramo del Po di Gnocca sfocia sul mare ci sono degli isolotti di catrame e alghe che potrebbero essere il dorso d'una balena. Da un lato c'è il mare e la massicciata, su cui sono stese dovunque reti da pesca e fasci di cannella palustre. Dall'altro lato la pianura uniforme, per coltivazioni e colori, a perdita d'occhio, con sparse fattorie tra i campi. Lungo la strada e sullo sfondo le costruzioni sono quasi tutte recenti, case quadrate a due piani, insediamenti che risalgo­no a venti o trent'anni fa. Qualche casa antica è abbandonata tra i campi, murata nelle porte e fi­nestre, tutta avvolta dalla vegetazione spontanea. Ho visto solo un vecchio, seduto su una sedia sotto un albero, stava guardando per terra. A quest'ora la gente è sull'aia, chiacchiera tra le case. Tutti abbastanza giovani mi guardano passare e mi seguono con gli occhi, ma con l'aria di non fa­re commenti. Un grande silenzio, il cielo è già rosso. Lontano oltre i campi coltivati vedo il lucci­care degli acquitrini.

Arrivato sulla massicciata della punta, è quasi sera. C'è un villaggio di roulottes, non lontano dalle roulottes il capannone d'una segheria. A tratti si sente il rumore della sega elettrica. Il mare è là davanti, a destra la strada prosegue lungo la massicciata. Ma è vietato il transito ai non resi­denti. Un battellino a due alberi gira al largo e va verso le Bocche di Goro. Sul battellino c'era un uomo col cappelluccio di paglia, un ragazzo e un cane. Vicino alle due Mercedes bianche parcheg­giate sulla massicciata, uomini con camicie militari e calzoni da paracadutista. Hanno con sé bino­coli, macchine fotografiche, un treppiede con cannocchiale da bird watching. Sono tedeschi, etologi. Guardano il mare. Ore 20,15. Continuano a guardare il mare così assorti, come se dovesse suc­cedere qualcosa da un momento all'altro. Sembra che aspettino la fine del mondo, gli etologi tedeschi, qui al limite estremo delle pianure. Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un'astronave né un destino. Se adesso co­minciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni in­dietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Chiama le cose perché restino con te fino all'ultimo.

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