Uno dei videogiochi più attesi del 2025 è Gta VI. Già solo la diffusione del primo trailer, a fine del 2023, è diventato un caso mediatico, capace di tagliare un record di visualizzazioni su YouTube. Nei giorni scorsi è stata scoperta, su una sorta di YouTube asiatico, una versione di quel trailer con dettagli ancora maggiori, con una grafica di qualità eccezionale, a dimostrazione di quanto questo videogioco possa segnare una nuova frontiera per tutto il settore.

Per intenderci, gli investimenti per la realizzazione di Gta VI – che dovrebbe uscire nell’autunno del 2025 – sono alla pari, o forse persino superiori, a gran parte dei kolossal hollywoodiani. Il capitolo precedente, Gta V, pubblicato nel 2013, ha richiesto circa 250 milioni di dollari per la produzione e ha raggiunto il primo miliardo di ricavi in soli tre giorni. L’industria dei videogame, nonostante venga spesso maltrattata da chi racconta il mondo dell’intrattenimento, rimane uno dei settori culturali più importanti.

Da tempo la rincorsa al fatturato coincide con un investimento impressionante alla ricerca delle grafica perfetta. L’intento è di ricreare videogiochi che ricalchino sempre di più l’esperienza cinematografica. Un altro dei videogiochi più attesi del 2025 si chiama InZoi ed è un simulatore di vita reale che per molti aspetti ricorda lo storico The Sims. Anche in questo caso, l’attesa per la sua uscita (prevista per il 28 marzo 2025) è stata accompagnata dalla diffusione dei primi trailer e da articoli che ne decantano la “grafica eccezionale”.

Eppure tutta questa guerra a imitare la vita reale – che poi a cascata riguarda in modo diverso anche videogiochi che sono meno attesi (e dunque anche meno venduti) – rischia di diventare un problema. Come scrive il New York Times, l’industria della tecnologia potrebbe perdere questa scommessa: «I videogiochi cinematografici stanno diventando così costosi e richiedono così tanto tempo per essere realizzati che l’industria dei videogiochi ha iniziato a riconoscere che investire nella grafica sta producendo rendimenti finanziari ridotti», scrive Zachary Small, un giornalista che si occupa della stretta connessione fra denaro, politica e tecnologia.

Il primo risultato è che molte “fabbriche di videogiochi” hanno iniziato a licenziare i propri dipendenti, a causa di utili non sufficienti per finanziare la macchina. E c’è chi ha iniziato a chiedersi se non sia tutto un abbaglio. Tutta questa ricerca dell’iper-realismo non sta facendo dimenticare quello che dovrebbe essere il vero obiettivo di un videogioco? Ovvero, far divertire, magari emozionare, se si può pure insegnare qualche cosa. In altre parole: che ce ne facciamo di videogiochi che sembrano film, se poi non sono divertenti?

La storia di Eric Barone

Come molte altre persone della sua età, Eric Barone – classe 1987 – è cresciuto in un’epoca diversa per i videogiochi, quando la tecnologia non permetteva la grafica cinematografica di oggi. Ai tempi, semplicemente questo non era un problema: quello che importava davvero era l’esperienza di gioco. Barone passava le ore con Harvest Moon, un simulatore di vita reale sviluppato negli anni Novanta, in cui il protagonista doveva far crescere una fattoria, partendo inizialmente da risorse limitate.

Quando Barone si è laureato in informatica a Tacoma, nello stato di Washington, ha preso ispirazione dai suoi ricordi d’infanzia per lavorare al suo primo progetto. L’intento era di sviluppare un videogioco da zero, inizialmente non per venderlo, ma per testare le proprie capacità di programmazione. In un certo senso, voleva migliorare il suo curriculum.

Il risultato è stato però al di sopra di tutte le aspettative. Completamente da solo, ha dato vita a Stardew Valley: uno dei videogiochi indipendenti più famosi degli ultimi anni.

Come spiega Francesco Toniolo nel libro Game culture (Il Mulino), «questo progetto è durato anni, durante i quali ha dovuto imparare da solo ogni aspetto della realizzazione di un videogioco. A volte le sue nuove scoperte gli aprivano inquietanti possibilità: tutti i contenuti realizzati fino a quel momento erano da rifare da zero, in quanto non compatibili con certi programmi o certe operazioni».

«Notti insonni, studio matto e disperatissimo, preoccupazioni finanziarie per il conto corrente sempre in rosso. Eppure, Eric Barone ha resistito, Stardew Valley è stato pubblicato e ha venduto milioni di copie, ricompensandolo di tutti i sacrifici».

Stardew Valley

Al di là dell’aspetto quasi leggendario della vicenda (e difatti così viene descritta dagli appassionati di videogiochi), la particolarità è che ha avuto successo intraprendendo una strada completamente diversa da quella seguita dalle case milionarie.

In Stardew Valley non ci sono persone che si sparano addosso; non c’è nessuna scena cinematografica interpretata da attori reali; c’è solo la storia di una tranquilla ambientazione retrò e di un tranquillo paese di campagna. Potrebbe sembrare monotono, ma in realtà ha un effetto esattamente contrario. Contribuisce alla serenità di chi ci gioca.

Molti videogiochi sembrano ricalcare la vita che già viviamo, sono pienissimi di stimoli e notifiche, colori sgargianti, esplosioni e lampi. Sono costruiti per essere condivisi con persone che ci giocano a distanza e talvolta per essere trasmessi in diretta su Twitch.

C’è però un movimento che si ribella a tutto questo e che chiede esattamente il contrario, la disconnessione, la tranquillità e ambientazioni semplici ma efficaci. In altre parole: di riportare i videogiochi indietro nel tempo.

Sogno retrò

E difatti molte volte si parla di “retrogaming”, con due strade che sono diverse, ma rientrano entrambe in questa stessa definizione.

Da un lato, ci sono appunto giochi come Stardew Valley che sono completamente nuovi, ma ricalcano dinamiche del passato e sono programmaticamente ispirati dai videogiochi che si usavano un tempo. È una via che in realtà non viene percorsa solo da produzioni indipendenti: una delle fortune di Minecraft, ad esempio, è proprio la grafica irrealistica.

La seconda strada è semplicemente la riedizione di vecchi giochi, che tornano a essere disponibili nelle nuove piattaforme, con una versione leggermente restaurata. Gli esempi sono tantissimi: tutti i giochi ad esempio legati a Pac Man o Super Mario; ma anche Crash Bandicoot, i cui primi tre episodi sono stati raccolti in un’edizione speciale.

E ancora: Age of Empires II, il gioco di strategia più famoso al mondo. O ancora: la serie di Broken Sword, un “punta e clicca” sviluppato da Revolution, che è tornato disponibile in una versione restaurata anche grazie al crowdfunding. O ancora, un altro gioco molto simile e fortunatissimo: Monkey Island.

Make videogames great again

Questi sono solo alcuni esempi, ma è facilissimo trovarne molti altri ancora; così come è facile leggere nelle riviste di settore gli articoli che celebrano questo Rinascimento del retrogaming. C’entra anche un aspetto tecnico: giochi tecnologicamente meno avanzati hanno bisogno di requisiti inferiori e sono quindi alla portata di un pubblico più ampio. Ma non c’è solo questo.

Soprattutto dopo il lockdown, molti giocatori sembra stiano cercando esperienze di gioco più confortevoli. Il realismo della grafica diventa così secondario: ciò che conta davvero è semplicemente stare bene, mentre si sta giocando.

Proprio come ascoltare una vecchia canzone, un videogioco può accendere i ricettori della nostalgia. Può riportare la mente al passato, al tempo in cui giocare era un affare serissimo, forse l’esperienza più importante che si poteva fare. Si può tornare al tempo della scoperta, quando finire un livello, costruire una città o sconfiggere un nemico era semplicemente un divertimento e non una performance. Quando la vita al di fuori di un computer aveva la sua ragione di esistere e non aveva senso imitarla, in una simulazione posticcia, costata milioni di dollari e fatta da pixel sempre più definiti.

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