Ci voleva lo sguardo poetico e umanista di due outsider del cinema italiano come Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman per raccontare una “favola” vera: quella di Marilena Amato, moglie, madre di tre figli e parrucchiera a Torre Annunziata, pronta a tutto per avere una bambina, anche adottarla.

Presentato nella sezione Orizzonti Extra all’ultima Mostra del cinema di Venezia, Vittoria racconta con la forza della verità un amore incondizionato. Coprodotto dall’impavido Nanni Moretti, il film, che è in sala dal 3 ottobre, ci trascina tra finzione e documentario nelle vie tortuose dell’adozione internazionale.

Cosa avete imparato sull’adozione girando questo vostro secondo film di finzione?

Casey Kauffman: È normale che ci siano molte tappe burocratiche e controlli, non puoi affidare un bambino a chiunque, ma il costo dell’adozione sta diventando proibitivo ed è sbagliato perché privilegia chi è ricco. C’è molta più pressione su una coppia di genitori che vuole adottare che su quella che pensa a un figlio biologico. Pensate al peso delle aspettative, ai rifiuti, ai tempi d’attesa che sono spesso biblici.

Perché siete passati al cinema di finzione? Il documentario non vi bastava più?

Alessandro Cassigoli: È stato graduale. C’è sempre un momento nel documentario in cui inizi a dirti: “Quanto sarebbe bello se adesso succedesse questo”… C’è sempre una parte di regia con cui devi fare i conti, perché è un genere che non ti permette di pilotare tutto. A un certo punto questa mancanza di controllo è diventata frustrante, così abbiamo deciso, pur mantenendo un impianto reale e dei non attori, di creare una struttura narrativa, con la sceneggiatura e un dispositivo di troupe molto più flessibile.

C.K.: Non mi sarei mai aspettato di andare verso la finzione, contrariamente ad Alessandro che è sempre stato un grande appassionato di cinema. Fin da piccolo sognavo di diventare un reporter di guerra, un giornalista, e per tredici anni ho lavorato per canali di news come Al Jazeera. Ma a un certo punto mi sono sentito frustrato perché nel giornalismo tv ci sono ancora più parametri formali e limiti di linguaggio che nel documentario. Passare a questa forma di cinema, in cui puoi lavorare sull’impatto emotivo della realtà, è una liberazione.

Perché, contrariamente ad altri paesi come la Francia o la Germania, il documentario continua a essere considerato il “parente povero” del cinema in Italia?

C.K.: Il documentario ha poco spazio nella produzione italiana, e per chi, come noi, è a cavallo tra due generi è ancora più complicato. Siamo in una terra di mezzo, ma siamo stati fortunati ad avere il sostegno di Gabriele Genuino di Rai Cinema che con il suo cinema del reale cerca di portare avanti un cinema di ricerca che sfugge alle etichette.

A.C.: Ho vissuto tanti anni in Germania e ricordo che era normale per molti ragazzi parlare del doc che avevano visto la sera prima su Arte. In molti paesi la programmazione televisiva ha abituato il pubblico ad apprezzare il documentario, in Italia se ti va bene ti trasmettono tagliato a notte fonda.

Non so se state per diventare cittadini onorari di Torre Annunziata ma questo è il terzo film che ambientate lì… Perché? Come ci siete capitati?

A.C.: Ci siamo capitati per caso, è lì che abbiamo girato otto anni fa Butterfly, il nostro primo documentario. Lavorando con una troupe piccola e mezzi molto ridotti, abbiamo veramente bisogno del sostegno della comunità dove giriamo, e Torre Annunziata è stata estremamente generosa con noi. Non sarebbe possibile realizzare i nostri film a Roma, e probabilmente neanche a Napoli che è una città smaliziata in cui tutti sanno ormai tutto dei set. A Torre Annunziata si sente ancora l’incanto e la curiosità per il cinema.

Perché siete così affascinati dai personaggi femminili? Questa è la vostra terza protagonista.

C.K.: Anche in questo caso non l’abbiamo deciso a priori, queste donne sono emerse dagli incontri che abbiamo avuto durante il nostro viaggio cinematografico. È stato veramente casuale.

Le protagoniste di Butterfly, Californie e Vittoria sono tutte donne molto forti, sottoposte a una grande pressione e con un obiettivo che gli altri non condividono per forza. Non le abbiamo scelte perché erano donne, se avessimo incontrato degli uomini unici come loro li avremmo sicuramente raccontati. Abbiamo incontrato Marilena, la nostra protagonista, sul set di Californie. Abbiamo capito subito che questa parrucchiera aveva qualcosa di speciale e che la sua storia andava raccontata. L’unica incognita era suo marito, non sapevamo se poteva funzionare al cinema ed era fuori discussione farlo interpretare da un attore, ma fortunatamente anche lui si è dato completamente ed è bravissimo.

Qualcuno potrebbe accusarvi di sfruttare i vostri protagonisti e le loro storie personali, come mantenere la giusta distanza?

C.K.: Ci facciamo spesso questa domanda: qual è la rappresentazione giusta delle persone che decidiamo di raccontare? Perché dopo le riprese noi continuiamo le nostre vite, loro invece rimangono immortalati in un film. Per Butterfly, che è un documentario, abbiamo seguito la pugile Irma Testa e il suo tempo e la sua dedizione sono stati regolarmente pagati. Per Californie, che era una finzione basata sulla realtà, la questione era più complessa perché Khadija Jaafari, la nostra protagonista, era un’adolescente, quindi una minorenne. L’abbiamo seguita per anni, e oltre a pagarla per il suo lavoro abbiamo deciso di proteggerla cambiandole il nome. Il suo personaggio Jamila era basato sulla sua vita ma non era lei. Stessa cosa adesso con Marilena Amato e la sua famiglia, nel film si chiama Jasmine.

A.C.: Il cuore di tutto quello che siamo e facciamo viene dal documentario. È una forma di narrazione che può portarti a manipolare i tuoi protagonisti, ma è una cosa che non abbiamo mai fatto, perché il rispetto per la persona viene prima di tutto. Vogliamo che le persone con cui lavoriamo stiano bene durante e dopo le riprese.

Immagino che non sia facile vedere la propria storia sul grande schermo. Come ha reagito Vittoria, la figlia adottiva di Marilena e Gennaro, alla prima del film durante la Mostra del cinema di Venezia?

C.K.: Abbiamo dato la possibilità a tutta la famiglia di vedere il film prima. Vittoria, che ora ha 13 anni, è molto seguita dai suoi genitori, che erano convinti che la figlia avrebbe vissuto la prima del film come un divertimento e hanno deciso di scoprirlo insieme alla Mostra del cinema. In realtà pare che Vittoria abbia dormito durante tutta la proiezione e che si sia svegliata nella parte ambientata nell’orfanotrofio in Bielorussia… Chissà che ricordi ha scatenato in lei sentire il russo, che è stata la sua lingua madre per i primi anni della sua vita. Devo dire che questa esperienza a Venezia con tutta la loro famiglia è stata veramente toccante, si sono divertiti, hanno pianto, si sono abbracciati, è stato un sogno a occhi aperti.

I vostri film sembrano terapeutici non solo per i vostri protagonisti ma anche per voi…

C.K.: Mia moglie mi accusa di aver ceduto a un terzo figlio per colpa di Marilena! (risate)

A.C.: Per noi il cinema vuol dire catapultarsi in una storia insieme ai suoi protagonisti senza troppi orpelli, con una troupe leggera, cercando di catturare una verità.

C.K.: Lavorando con dei non attori, abbiamo la possibilità di catturare momenti autentici, imprevedibili, e vederli rivivere momenti della loro vita di fronte alla macchina da presa è una delle ragioni per cui è bello fare questo mestiere.

Quanto è importante oggi dare visibilità agli invisibili?

A.C.: In un mondo in cui i modelli di riferimento sono i soldi, il successo e la fama pensiamo che sia importante raccontare anche la sconfitta, come abbiamo fatto nel nostro primo documentario Butterfly, in cui abbiamo seguito una pugile che perde alle Olimpiadi, o in questo caso, l’amore e l’umanità di una famiglia normale che si ritrova in una situazione straordinaria. C.K.: Ci piace pensare che queste storie possano toccare e far riflettere il pubblico, ma non siamo attivisti, non pretendiamo di cambiare il mondo attraverso il nostro cinema.

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