- Richard Wagner morì di infarto un pomeriggio di febbraio del 1883 nel palazzo Vendramin sul canal Grande. Aveva 69 anni.
- Non era un mistero che amasse i vestiti da donna, ma in casa, ben nascosti semmai sotto gli abiti maschili e senza dare scandalo alcuno.
- Per lo psicologo viennese Otto Weininger, le partiture di Wagner rendevano chiaro la sua teoria sul rapporto stretto tra impulsi musicali e sessuali. Baudelaire pensava la stessa cosa.
Richard Wagner morì di infarto un pomeriggio di febbraio del 1883 nel palazzo Vendramin sul canal Grande. Aveva 69 anni. A Venezia aveva passato l’inverno con sua moglie Cosima: stanco, di salute malferma ma libero da incombenze teatrali e col progetto di mettersi a scrivere sinfonie.
Lanciò l’ultima invocazione di aiuto dalla stanza decorata di pizzi e raso colorato che chiamava «grotta azzurra» dove stava lavorando a un saggio sul «femminile nella razza umana». Nelle prime righe citava Buddha e si interrogava sulle implicazioni sociali di monogamia e poligamia. Vestito con una lunga gonna di raso rosa. Profumato delle essenze alla rosa che preferiva. Piccole manie feticiste, il raso e il colore rosa.
Non era un mistero che amasse i vestiti da donna, ma in casa, ben nascosti semmai sotto gli abiti maschili e senza dare scandalo alcuno. Molto imbarazzo, qualche anno prima, gli aveva procurato un giornalista pettegolo che aveva reso pubblica la lettera con la quale chiedeva alla sarta, interior design e sua confidente, Bertha Goldwag, una vestaglia di raso bianca e rosa, descrivendole la complicata lavorazione delle trame e dei tagli. “Frou frou Wagner”, era il titolo di una famosa caricatura dell’epoca.
Nel 1920 il sessuologo berlinese Magus Hirschfeld, pioniere della cultura gay tedesca, dedicò a Wagner un capitolo intero del suo studio sui travestiti, senza mai attribuirgli una deriva patologica ma apprezzando al contrario la «pienezza» della sua vita interiore. Lo stesso Hirschfeld in un libro di dieci anni prima aveva rivelato Bayreuth come luogo di culto per gli «uraniani» di tutto il mondo.
Solo negli anni Trenta vengono rese note le lettere tra Wagner e Ludwig II, massima icona gay della sua epoca. Omosessuali e lesbiche, ma anche anarchici e comunisti, poeti, scrittori e filosofi trovavano ugualmente un qualche genere di libertà nella musica più misteriosamente emotiva del loro tempo, fino all’eccesso, persino pericolosa al punto da essere oggetto dell'attenzione sperimentale degli scienziati.
Impulsi musicali e sessuali
Uno psicologo del Michigan misurò le pulsazioni di un soggetto ipnotizzato al quale veniva suonata la Cavalcata delle Valchirie al pianoforte: da 60 a 120 al minuto, respirazione accelerata, sudore copioso. Per lo psicologo viennese Otto Weininger, le partiture di Wagner rendevano chiara la sua teoria sul rapporto stretto tra impulsi musicali e sessuali. Baudelaire pensava la stessa cosa.
C’era un turismo gay ispirato a Wagner, che gay non era. Era una voga bohemienne, moderna, romantica. In viaggio a Venezia nel 1924, Alan Locke e Langston Hughes, il filosofo e il giovanissimo poeta afroamericani dell’Harlem Reinaissance, si corteggiano discretamente visitando palazzo Giustiniani dove il maestro aveva scritto il Tristano ascoltando i canti dei gondolieri, quindi vanno a rendere omaggio al palazzo Vendramin – dove una lapide di Gabriele D’Annunzio ricorda «l’ultimo spiro» – poi si spingono fino al Lido. Come in un racconto di Henry James o Thomas Mann, che si affrettano a leggere di ritorno a casa.
Ma c’è stato, ed è quello che ci ricordiamo meglio, un turismo wagneriano di tutt’altro genere: Adolf Hitler va a meditare solitario per la prima volta sulla tomba del musicista a Bayreuth un anno prima, nel 1923. Dicono fosse andato al fronte nel 1914 con una partitura del Tristano nella bisaccia, che amava mormorare canticchiando in trincea.
Negli anni Trenta inoltrati costringerà spettatori e gerarchi a riempire ogni posto disponibile alle rappresentazioni di Bayreuth: come strumento di propaganda di massa Wagner era diventato nel frattempo parecchio faticoso da gestire.
L’opera di Ross
«La misoginia di Wagner, come il suo razzismo, si sciogliono di fronte alla forza inspiegabile che cancella le distinzioni e conduce a una unità trascendente. Questa forza è la musica», scrive Alex Ross nel suo Wagnerismi, pubblicato due anni fa e tradotto in Italia da Bompiani.
Ross, 55 anni, è il critico di musica classica del New Yorker: il suo primo libro Il resto è rumore, storia della musica del Novecento, è da tempo un piccolo classico. I saggi sul rapporto tra Radiohead e Monteverdi, le cronache su uno dei magazine più eleganti del mondo, il lavorio incessante del suo blog, lo rendono uno degli interpreti migliori del ruolo per preparazione e leggerezza.
Allievo a distanza di Leonard Bernstein, di Aaron Copeland, radical chic nel senso migliore, Ross taglia corto con la retorica camp arbasiniana del melodramma per portarci pure in fondo al volume – con divertito pudore – nei teatri dove, seduto accanto a fidanzati nuovi o passati, ha proiettato amori e dolori coi Parsifal e le Brunhilde sulla scena.
Pieno di nomi, carico di storie minime e di eventi enormi, torrenziale nelle sue quasi mille pagine, Wagnerismi è frutto di un’ossessione per il compositore tedesco e il suo culto durata almeno dieci anni. Meno un libro di musica che di storia della cultura.
Ross usa la teoria delle ricezione – detto in termini tecnici – e la trasforma in storytelling. Sa pescare inoltre a piene mani nella curiosità aneddotica-biografica – fatta di lettere, mogli, amanti, bizzarrie e segreti d’ogni tipo – che da sempre gli storici della musica usano per scoprire i segreti intangibili di compositori e composizioni.
Wagner è stata la prima popstar moderna. Infiniti e insospettabili i suoi fan, wagnerites per usare il termine di Ross. Lenin aveva tre libri di Wagner nella sua biblioteca al Cremlino, sua moglie racconta che la forza della musica – le opere viste dai tempi dell’esilio – lo costringesse a uscire col mal di testa dopo il primo atto.
Thomas Herzl, fondatore del sionismo, amava il Tannahauser nonostante il velenoso antisemitismo del suo autore, al punto di averlo visto e rivisto più volte a Parigi. Il filosofo nero William Du Bois, teorizzatore dell’anima divisa negli ex schiavi, si sentì unico e libero soltanto la volta che andò a vedere il Lohengrin a New York, e un inserviente lo svegliò dal sogno e gli fece cambiar posto perché i vicini bianchi non tolleravano la sua imprevista presenza.
Cosa c’entrano esattamente un filosofo afroamericano e un compositore ultraromantico antisemita? «Di fronte a un mostro sacro come Wagner – scrive a questo punto Ross – quanto potere abbiamo come spettatori? Siamo necessariamente complici della sua ideologia? O possiamo prenderne possesso e rifarlo a nostra immagine?».
Un libro su di noi
In questo senso Wagnerismi è meno un libro su Wagner, e la sua musica, più un libro su di noi. Sulla residua capacità democratica di manipolare gli oggetti e i significati della cultura pop. Nell’èra dei social, dell’accelerazione fuori controllo, Theodor Adorno e Walter Benjamin restano sullo sfondo. Il primo disposto a chiudere un occhio su Wagner salvato dalla sua dimensione utopica («il potere nevrotico di guardare in faccia il suo fallimento»), l’altro capace di scrivere lapidi come queste: «Non c’è documento culturale che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie».
Wagner stende ancora la sua ombra fino a noi come lo ha fatto, vero Nosferatu, su tutto il Novecento. Il capitolo sul rapporto tra la mitologia del Ring e Hollywood, da Apocalipse Now ai Supereroi con il loro sotterreaneo bagaglio ideologico di buoni contro cattivi, è una delle aree più perturbanti di questa indagine.
Ross ci ricorda che il legame tra la guerra e la Cavalcata delle Valchirie ha ascendenze in Proust e Toscanini, persino in Lina Wertmuller (il suo Pasqualino Settebellezze). Che nella scena di Coppola (e di John Milius che l’ha scritta) l’ironia e il paradosso degli elicotteri non sono mai scontati perché quella scena è vera, è accaduta e accadrà ancora. «Wagner rappresenta l’inconscio della modernità – commenta Ross – il mondo occidentale che combatte con le sue contraddizioni, il suo bisogno di creare e distruggere, le sue inclinazioni tra le bellezza e la violenza».
Una volta Karl Marx fu costretto a dormire nella stazione di Norimberga perché gli alberghi della città erano pieni per il festival di Bayreuth. Scrisse una lettera a Engels lamentandosi della follia generale, della «commercializzazione» dell’arte come avrebbe fatto un boomer moralista. Eppure chi più chi meno, tutti hanno amato Wagner. E tutti hanno avuto ottimi motivi per odiarlo. Questo non lo assolve in nessun modo. «Liberato dalla mistificazione della grande arte l’artista diventa qualcosa di instabile, fragile, mutevole», commenta Ross. Se la cosiddetta cancel culture può insegnarci qualcosa è che nessuna opera d’arte è al di sopra della “sua” storia, anzi per molti versi ogni opera d’arte è anche la sua storia.
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