Da un po’ di giorni mi sta fissa in testa un’immagine ossessiva: quella di un animale, una lepre per esempio, che in mezzo alla strada di notte è abbagliata dai fari e non sa reagire che rimanendo immobile. È la sensazione che provo se penso alla società italiana in questo periodo in cui tutto sta accadendo contemporaneamente, e dove l’emergenza porta con sé una strana forma di accidia.

Credo che dipenda soprattutto dall’incrocio di due serie temporali molto diverse: da una parte richieste giuste di cambiamento che per realizzarsi necessitano molte generazioni, molta pedagogia e molta continuità culturale; dall’altra mi sento scorrere sotto i piedi un tapis roulant uniformemente accelerato a dirmi che le scelte decisive sono prossime, che la catastrofe viene avanti a grandi passi e che devo saltare subito, ora. Di qui la paralisi: l’auto coi fari accesi mi è quasi addosso e il mio cervello è bloccato dalle contraddizioni.   

La fine del patriarcato

(Paul Zinken/picture-alliance/dpa/AP Images)

Esco di metafora. Cominciamo dall’auspicata fine del patriarcato, che dovrebbe essere radicale: liberando le donne da un plurimillenario ruolo di sottomissione e di cura, liberando i figli dalle regole di un’obbedienza cieca, dal rimpianto di ribellioni mai avvenute o dal rimorso di distacchi troppo crudeli.

Il patriarcato si nasconde dappertutto: negli automatismi della lingua, nelle convenzioni religiose (non recitare più il Padre nostro, l’unica preghiera che nei Vangeli sia insegnata personalmente da Gesù?), nelle abitudini familiari, nei sogni che non possiamo controllare.

Ma proprio ora la crisi della democrazia fa emergere un po’ dovunque figure (maschili o femminili poco importa) che incarnano il ruolo dell’autorità e si vantano virilmente di tener duro in nome della Patria. In Cina un governante che è nominato quasi a vita sta minacciando il dominio geopolitico degli Usa sui tempi lunghi, mentre sui tempi brevissimi dobbiamo decidere se mandare ancora armi a difendere una nazione aggredita, pur senza dichiarare guerra all’aggressore. Il gioco della guerra è un gioco maschile da sempre, di figli che muoiono e di padri che li mandano a morire.

L’identità di genere

Secondo esempio la questione del gender. Perché rinchiudere l’indefinita varietà del sesso e del ruolo sociale dei sessi nel letto di Procuste di un’alternativa soltanto binaria, maschio/femmina ?

È vero che da millenni la letteratura, le fiabe, l’immaginario hanno fatto in prevalenza questo, ma se si comincia ad aprire sbucheranno molti esempi contrari e la breccia si può allargare con l’educazione. Invertire la tendenza, affermare l’arcobaleno come bandiera di libertà. Ma se io genitore mi trovo ora, subito, di fronte a una figlia tredicenne che una mattina mi dice «da oggi voglio chiamarmi Jason» e pretende che per riferirsi a lei si usi il plurale, devo assecondare il suo desiderio e aiutarla con le cure ormonali o temere che lo stia facendo perché così la sua diversità può incanalarsi su un sentiero che oggi promette di farla sentire meno diversa ? E se magari tra due anni se ne pente? Dicendole che tutti i desideri sono uguali, non le sto togliendo la forza della singolarità?

Tutti presi ad affermare chi sono, i nostri giovani restano vaghi nel raccontarci chi desiderano. A forza di affermare che tutti i corpi sono desiderabili, non si arriverà paradossalmente alla negazione del corpo, esaltando i corpi fittizi del fantasy o quelli virtuali dei cyborg? Ci affideremo alla tecnologia del metaverso come a un’industria della speranza?

Il problema delle disuguaglianze

(Ikon Images via AP Images)

Se, per sottrarmi al privilegio bianco, dico che il colore della pelle per me non ha importanza, posso cadere nel tranello della “colourblindness”, la cecità ai colori, dunque nego un privilegio appoggiandomi all’altro mio privilegio di poter non far caso al colore della pelle, cosa che i “razzializzati” non possono fare; e allora per compensare il mio vantaggio sistemico sarò indotto a far pesare di più gli svantaggiati (far parti uguali tra disuguali è un’ingiustizia, ammoniva don Milani). Ma se io subito, ora, devo compilare un’antologia scolastica, dovrò preferire gli scritti dei non-bianchi anche se li ritengo meno buoni?

E se dedico le mie forze a invertire la rotta dei consumi perché credo che la felicità sia più importante del Pil, e so che l’inerzia umana non ha fatto passi avanti da quando Bob Kennedy lo diceva più di 50 anni fa, compito lunghissimo quindi anche questo, e poi mi trovo adesso che per paura di non avere le luminarie a Natale la maggioranza è favorevole a riaprire le centrali a carbone, il che rimanda il riequilibrio climatico alle calende greche, anzi per evitare l’estinzione della specie umana forse è perfino troppo tardi, e poi invece scopro che le luminarie si possono fare come al solito perché il gas d’improvviso costa meno, e che non è vero che la metà delle industrie siano costrette a chiudere lasciando milioni di disoccupati, ecco che la sindrome della lepre abbagliata mi riafferra e mi paralizza le sinapsi.

Le previsioni di meteorologi, virologi ed economisti si rivelano fallaci a breve raggio mentre il sospiro di sollievo serve a mascherare l’apocalisse che invece si prepara con certezza.

La sinistra come la lepre

LaPresse

Comincio a credere che la sindrome non sia soltanto mia; il più folto partito di centro-sinistra sta cercando di misurarsi l’anima proprio quando sarebbe il caso di fare patti anche col diavolo. Se davvero il nostro paese sta correndo il rischio di una torsione autoritaria, chi è contro deve mettersi insieme senza star troppo a sofisticare di anime; prima si argini il pericolo e al resto si penserà dopo. Una volta, in un centro di accoglienza migranti, un prete intelligente mi disse «noi siamo la minoranza cristiana in seno alla chiesa cattolica»; perché ora non si potrebbe pensare a una minoranza socialista nel seno di un fronte liberale?

Alla fine del secolo scorso pareva ovvio che il vero totalitarismo fosse quello silenzioso del capitalismo finanziario, subdolo nell’impadronirsi delle coscienze agitando il vessillo del benessere omologato; una subordinazione ottenuta non con la violenza ma con l’esibizione del facile piacere. Quand’ero giovane si sognavano congiunte, in un tempo misurabile col compasso della nostra giovinezza, la rivoluzione sociale e quella sessuale: è stata la grande illusione in cui ci siamo bruciati. Ora ho l’impressione che la speranza sia rimandata a un lontano futuro mentre al presente si può solo resistere, sostenendo ogni focolaio di ribellione e facendosi forza al pensiero che dove c’è oppressione c’è rivolta. 

In questa condizione, la minaccia autoritaria risulta straordinariamente funzionale; il “fascismo eterno” copre con la sua ombra nera ogni insipiente e gretto conservatorismo, ogni thatcheriana durezza, ogni revanscismo identitario, ogni voglia di far tornare l’Italia “great again”.

Da Montale a Thomas Mann, gli intellettuali attivi negli anni Trenta hanno spesso sottolineato come fosse più facile schierarsi allora che nel fumoso e ambiguo dopoguerra; negli anni Trenta, dicevano, c’era l’orrore da una parte e dall’altra bastava anche solo una “decenza infinitesima”. Ci si sentiva nel giusto, pronti al sacrificio, intimamente bellici.

E se il fantasma dell’autoritarismo liberticida fosse anche adesso in occidente l’ennesimo inganno del capitalismo (il miglior sistema economico inventato dall’umanità per coniugare l’indiscutibile matematica della finanza con la psicologia dell’inconscio) per avviarsi senza scosse all’ultimo atto? Se fosse l’estremo espediente per incanalare l’attenzione e la protesta verso un bersaglio temporaneo, mentre il countdown climatico ci coglierà al culmine dello sviluppo tecnologico e dell’ingiustizia? Con gli intellettuali in guerra tra “granitici” e “fluidi”, e la finanza a dettare le mosse finali del risiko? Trump e Meloni e Åkesson e Zemmour nient’altro che sagome di tirassegno. «E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/ Era una soluzione, quella gente»: così Costantino Kavafis nel 1904.

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