- Agli scienziati che hanno individuato il devastante batterio che stava facendo seccare gli ulivi del Salento rimaneva almeno la consolazione di aver svolto al meglio il proprio lavoro.
- Non potevano però sapere che così facendo stavano aprendo un vaso di Pandora i cui veleni travolgeranno le loro vite.
- Un libro racconta la vera storia del disastro
Nell’agosto del 2013 mi aggiro per la provincia di Lecce con un amico, un fotografo e la sua assistente. Di quei giorni ho ricordi confusi ma avvolti da una tonalità calda, allegra ed entusiasta: sto mettendo assieme uno dei miei primi reportage per una rivista – una storia a puntate sull’esplosione del turismo nel Salento – e dovendo scrivere di persone che si divertono in compagnia mi sembra logico fare lo stesso.
In America lo chiamano giornalismo immersivo, in pratica siamo quasi sempre ubriachi, torniamo a casa alle otto di mattina dopo aver fatto colazione con un cornetto da Dentoni a Torre dell’Orso e al risveglio trovo sul taccuino dei geroglifici di difficile interpretazione macchiati di gin tonic.
Con la piccola carovana finiamo anche alla Baia Verde, una lunga distesa sabbiosa le cui acque cristalline sono protette dall’isola su cui sorge la città vecchia di Gallipoli, il principale porto del Salento e il luogo da cui un tempo partiva l’olio d’oliva lampante destinato ad alimentare le lanterne di tutta Europa.
Alla Baia Verde ci sono un grande parco che ospita dj internazionali come David Guetta o Paul Kalkbrenner e una lunga infilata di lidi che sparano musica techno già da metà pomeriggio; il risultato è una sorta di versione low cost di Ibiza. In un piccolo paese con meno di ventimila residenti in agosto si riversano centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze che spesso dormono in garage e balconi affittati illegalmente o direttamente in spiaggia.
I giornali locali da un lato denunciano il degrado, dall’altro pubblicano le mirabolanti cifre prelevate agli sportelli dei bancomat in un mese, cifre nell’ordine delle decine di milioni di euro.
Ci aggiriamo fra ragazze vestite di piume che distribuiscono prevendite e giganteschi Chupa Chups che pubblicizzano il «LECCAmi LECCAmi party»; ci infiliamo fra uomini e donne con una evidente passione per i tatuaggi aforismatici – in genere note terzine dantesche, slogan di autoaiuto o cori del Napoli calcio – beviamo cocktail in bicchieri di plastica al Samsara, il lido più famoso della Baia, mentre sul tetto ballano delle cubiste-amazzoni e dei culturisti spalmati d’olio abbronzante che sembrano usciti da un libro di Walter Siti.
Molte ore dopo ce ne andiamo da quel divertimento che pare la prosecuzione organizzata del lavoro aziendale, senza sapere che a pochi chilometri alle spalle della Baia Verde, nelle campagne dove l’onda sonora del carnevale estivo arriva sfumata e distante, sta accadendo qualcosa che cambierà per sempre il Salento, l’Italia e, probabilmente, l’Europa.
Disseccamenti anomali
Quasi ogni giorno all’alba, mentre la Baia Verde va lentamente spegnendosi, Martino, un ottantenne di Taviano, un piccolo paese alla periferia di Gallipoli, pedala per alcuni chilometri fino a un fondo dove ha degli ulivi, qualche albero da frutto e degli ortaggi.
Calvo, occhi azzurro chiaro piuttosto anomali per un salentino, qualche macchia sulla pelle ma un fisico ancora in forma a dispetto dell’età avanzata, Martino è un ex carabiniere che ha speso la sua vita professionale nel quartiere Santo Spirito, alla periferia di Bari, dando la caccia a rapinatori e a ladri di auto.
Il campo è vicino a Gallipoli, in contrada Fontana, e da qualche mese sta accadendo qualcosa di strano: gli ulivi presentano disseccamenti anomali, le foglie hanno delle bruscature, perdono il colore verde, prima tendono al rosso poi imbruniscono e seccano, come se qualcosa le avesse bruciate. Sono sintomi che non assomigliano a nessuna delle malattie dell’ulivo conosciute dai contadini della zona.
Nei dintorni molti agricoltori stanno praticando potature aggressive e Martino pensa che stiano abbassando gli alberi per rendere possibile la raccolta meccanizzata; sulle prime non gli viene in mente che i vicini siano alle prese con il suo stesso problema e stiano cercando di risolverlo tagliando.
Se Martino non è l’unico i cui ulivi stanno seccando, è però l’unico ad avere una figlia sposata con Donato Boscia, dirigente dell’Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Cnr di Bari. Così, quando la famiglia di Donato si trasferisce nella casa estiva di Capilungo, sulla costa una ventina di chilometri a sud di Gallipoli, Martino siede sotto la veranda con i nipoti, la figlia e il genero davanti a una frisa, qualche pomodorino e delle mozzarelle, e racconta il problema dei rami secchi un po’ come se si trattasse di una curiosità.
Dovresti venire a vedere, dice a Donato, non capisco di cosa si tratti. Martino è preoccupato ma solo fino a un certo punto, l’ulivo, lo sanno tutti, è una pianta immortale. Il mattino seguente Martino e Donato risalgono in auto la litoranea e all’altezza di Marina di Mancaversa svoltano verso l’entroterra. Una volta al cospetto degli ulivi malati, Donato taglia un ramo secco, lo studia, passeggia fra gli alberi, ripete la stessa operazione altre volte, alla fine deve ammettere che nemmeno lui ha mai visto qualcosa del genere.
Nei giorni successivi Donato chiede in giro, visita le campagne della zona, sente dire che è già stata fatta una riunione pubblica per affrontare il problema dei disseccamenti e che li dottori hanno detto che la causa è la Zeuzera pyrina, ovvero il «rodilegno giallo», un insetto che scava gallerie all’interno dei rami.
È stata anche predisposta la cosiddetta «lotta guidata»: sono state appese agli alberi delle trappole ai feromoni e gli agricoltori sono stati invitati a usare il metodo più antico contro l’insetto: un filo di ferro da infilare nelle gallerie.
Donato sa che di norma il rodilegno è un parassita secondario che colpisce quando la pianta è già debilitata per altri motivi e anche i contadini dubitano che il problema sia quello, conoscono la canneddhra da sempre e i sintomi sono diversi, oltretutto a seccare sono anche rami che non presentano alcuna galleria.
Le associazioni di categoria locali oltre che di parassiti del tronco parlano anche di lebbra dell’ulivo, una malattia molto presente a causa di annate umide. «Se poteva essere lebbra però io volevo sentirmelo dire dal papa della lebbra» spiega oggi Boscia. Si procura perciò il numero di Giovanni Nigro, massimo esperto pugliese di funghi e docente all’università di Bari.
Nigro – un uomo piuttosto imponente che quando parla ha la tendenza a inclinare verso il basso la testa e scrutare l’interlocutore da sopra gli occhiali – spiega a Boscia che è stato qualche mese prima nel Salento e ha partecipato a una riunione pubblica a Parabita proprio riguardo al fenomeno dei disseccamenti.
Conosce quindi il problema ma nega decisamente che possa trattarsi di lebbra, i sintomi sono completamente diversi: la lebbra è causata da un fungo, si presenta in una determinata fase del ciclo dell’albero – poco prima della raccolta delle olive – fa cadere le foglie e marcire le drupe ricoprendole con una poltiglia rossastra, non dissecca interi rami o branche dell’albero.
Donato telefona allora a Maria Saponari, una collega che nel suo gruppo di ricerca si occupa di virosi dell’ulivo, e la invita a passare una giornata al mare; già che ci sei, le spiega, ho una cosa da mostrarti. Maria porta con sé anche Enza Dongiovanni, un’esperta di funghi e di insetti che lavora al Basile Caramia, un ente di ricerca agronomica di Locorotondo.
Un vicolo cieco
Diversamente da altre zone del Salento, il tratto di litorale roccioso immediatamente a sud di Gallipoli è stato edificato dagli anni Sessanta fino agli Ottanta con case e ristoranti che sorgono direttamente sul mare. Negli spazi fra una località estiva e l’altra – coaguli di casette a uno o due piani con qualche piccolo market –è ancora possibile parcheggiare la macchina sugli scogli e scendere a fare il bagno. È una zona frequentata soprattutto da salentini e, rispetto all’assalto in corso a Gallipoli in quei giorni, è un altro mondo, anche se dista solo qualche chilometro.
È su quegli scogli che i ricercatori con le loro famiglie passano una giornata di mare: i bambini si tuffano, entrano ed escono dall’acqua mentre gli adulti discutono sotto l’ombrellone. Si parla della visita nelle campagne di qualche ora prima: neppure le due ricercatrici hanno mai visto niente del genere. È strano.
Per essere su un ulivo, un albero che non sarà immortale come pensano in tanti ma è molto resistente, i sintomi sono davvero severi. Secondo Maria proprio per questo motivo difficilmente può trattarsi di un virus, in genere le virosi non hanno effetti così evidenti sull’ulivo, dal canto suo Enza non ha riscontrato nei sintomi nulla di associabile a dei funghi conosciuti, ha raccolto comunque dei campioni per isolarli in laboratorio. Siamo attorno a Ferragosto; i tre si ripromettono di fare ulteriori accertamenti e alla fine della giornata le ricercatrici ripartono.
Gli isolati di Enza si rivelano un vicolo cieco: i funghi campionati si dimostrano tutti diversi fra di loro e già questo esclude che possano essere la causa della malattia. Al suo ritorno a Bari, Donato porta nei laboratori del Cnr dei rami disseccati e alcune foto delle piante, e ne parla ancora con Maria e altri colleghi. I ricercatori si orientano così a procedere con il next generation sequencing del succo xylematico della pianta. Si tratta di un processo attraverso il quale è possibile ottenere il Dna di tutto quello che è presente nella linfa, una sorta di ispezione totale.
Nulla che si trovi lì dentro sfugge al test, l’Ngs però ha anche alcuni svantaggi, è un processo che costa diverse migliaia di euro, per ottenere i risultati occorre un po’ di tempo e, soprattutto, se il problema fosse un parassita esterno alla linfa (un insetto, ad esempio), non apparirebbe nei risultati. Tuttavia a quel punto sembra la cosa più sensata da fare, o almeno lo è fino a quando nell’ufficio di Boscia non entra Giovanni Martelli, professore emerito e fondatore del gruppo di ricerca.
Martelli è in pensione ma continua a frequentare quotidianamente i laboratori che ha creato: Boscia gli mostra le foto degli alberi malati, poi recupera un ramo da uno dei frigoriferi in cui vengono tenuti i reperti vegetali. Martelli osserva il materiale, si fa descrivere dai suoi ricercatori il quadro che hanno osservato, poi alza gli occhi e dice: «Potrebbe essere Xylella».
«Si è aperto un dirupo»
Il suo sguardo ha la luce che l’intelligenza dona agli occhi di alcune persone, ma questa volta manca la leggera ironia che i suoi collaboratori hanno imparato a conoscere bene. Al suo posto c’e preoccupazione. Xylella èun batterio delle piante estremamente aggressivo, ufficialmente non presente sul continente europeo.
L’ipotesi è quindi piuttosto out of the box, ma Martelli ha speso alcuni anni della sua carriera negli Stati Uniti, dove ha avuto modo di vedere da vicino i danni causati da Xylella e gli sembra di ravvisare una certa somiglianza nei sintomi; in più se la diffusione della malattia è uniforme, come riportano i suoi ricercatori, potrebbe trattarsi di un patogeno diffuso da un insetto vettore, proprio come Xylella.
Vale la pena di provare a cercarla, il più costoso e lento next generation sequencing si può sempre fare dopo. Il tempo di ordinare i test specifici e l’ipotesi viene confermata: nella linfa degli ulivi che stanno seccando c’è proprio Xylella.
Se l’intuizione si è rivelata giusta, la notizia è pessima: Xylella è un batterio incurabile e si trova nella lista europea dei patogeni da quarantena. L’allarme, insomma, è massimo.
Ho discusso molte volte di quel frangente con i ricercatori coinvolti, e l’espressione più efficace a riguardo penso sia quella che ha usato Maria Saponari: «In quel momento di fronte a noi si è aperto un dirupo».
Un dirupo perché se la gravità della situazione è chiara, dal punto di vista scientifico di Xylella, in Europa, si sa pochissimo, l’infezione su ulivo non è documentata, quindi non è facile capire come agire.
Il ritrovamento del batterio è in sé una pessima notizia, agli scienziati rimane però la consolazione di aver svolto al meglio il proprio lavoro individuandolo. Non possono sapere che così facendo hanno aperto un vaso di Pandora i cui veleni travolgeranno le loro vite.
Questo testo è tratto da Il fuoco invisibile -- storia umana di un disastro naturale di Daniele Rielli, pubblicato da Rizzoli
© Riproduzione riservata