- La sua nuova serie tv animata di Zerocalcare su Netflix dal 9 giugno, Questo mondo non mi renderà cattivo è più feroce, attuale, incisiva e di conseguenza più intima e dolorosa della precedente
- «Penso che in generale è un mondo che porta a diventare cattivi; io stesso non sono esente da questa cosa. Possiamo, però, continuare a interrogarci sempre e a metterci in discussione» dice Rech
- E sul ruolo degli artisti commenta: «Sono stato parte di collettività che in qualche modo hanno provato a cambiare e comunicare al mondo una serie di cose, sarebbe paradossale ora che ho un palco molto grande sottrarmi a questa responsabilità»
Zerocalcare (Michele Rech) è la voce di una generazione arrabbiata, disillusa ma che non ha perso la speranza. La sua nuova serie tv animata, su Netflix dal 9 giugno, Questo mondo non mi renderà cattivo è più feroce, attuale, incisiva e di conseguenza più intima e dolorosa della precedente. Attraverso la lente della periferia, il fumettista quarantenne inquadra uno dei periodi storici più oscuri da noi vissuti, trasmettendo un messaggio inequivocabile e tagliente riguardante la disinformazione e la manipolazione dei media, così come la giustificazione di comportamenti “cattivi” verso coloro che soffrono, basata sulla nostra personale esperienza di sofferenza.
E lo fa con una prospettiva impeccabile che abbraccia le paure, difficoltà, rassegnazione ed istinto di sopravvivenza di un’intera generazione. Non vuole offrirci una soluzione, ma più una possibilità di riflessione, partendo proprio dal titolo che «voleva essere un auspicio, poi non è detto che vada bene per tutti, me compreso».
Da dove deriva?
È una canzone di Path, cantautore di Anguillara. Ascoltandola mi è sembrata calzare perfettamente alla storia che stavo raccontando, cioè quella di una serie di personaggi, tra cui alcuni di quelli raccontati nella serie precedente, che attraversano momenti di crisi e di difficoltà e che vengono messi alla prova dal mondo che li circonda. La scommessa sta nel capire come si esce da queste prove, se attraverso una soluzione individuale o collettiva o, addirittura, sgomitando sugli altri.
Ma, infatti, davvero questo mondo non ci renderà cattivi? O magari l’ha già fatto?
Sicuramente. Penso che in generale è un mondo che porta a diventare cattivi; io stesso non sono esente da questa cosa. Possiamo, però, continuare a interrogarci sempre e a metterci in discussione su quello che stiamo facendo.
Caparezza dice: «Il secondo album è sempre quello più difficile». Vale anche per le serie tv?
È stato più complesso soprattutto per la questione delle aspettative. Strappare lungo i bordi ha posizionato un’asticella, creando molto consenso. Penso sia naturale che se qualcosa va bene, ti viene spontaneo rifarlo. Al tempo stesso, non volevo fare qualcosa il più simile possibile a ciò che avevo già fatto solo per inseguire quel consenso. A me interessava far fare un percorso di crescita a quei personaggi all’interno della narrazione; quindi, per onestà e rispetto tanto nei confronti di ciò che volevo raccontare io, quanto di quelli del pubblico, era importante provare a fare qualcosa di diverso.
Il racconto più maturo si sente tutto, così come la crescita dei personaggi all’interno di un contesto complesso ma vicino alla maggior parte di noi. Qual è stato il tuo punto di partenza per la storia?
La storia era stata scritta qualche anno fa, in un periodo in cui all’ordine del giorno nei quartieri in cui la gente stava male, si rompevano alcuni equilibri e le persone avevano l’impressione che qualcun altro passasse prima di loro o avesse dei canali preferenziali. A questo spunto si sono intrecciate le storie quotidiane di altri personaggi, come per esempio Cesare che è l’insieme di persone che ho conosciuto e che hanno avuto un passato travagliato con le sostanze. Chi ce l’ha fatta ad uscirne, spesso si è ritrovato senza punti di riferimento o strumentalizzato dagli altri. Perciò nasce dall’esigenza di fotografare quello che stava succedendo in quella città insieme ad un racconto più intimo e di amicizia.
Le poche critiche che si leggono in giro riguardano la “troppa politica” nella serie e che, in generale, dall’intrattenimento bisognerebbe “lasciare fuori dalla porta” tematiche più complesse. Sei d’accordo?
Non penso che un prodotto di intrattenimento debba necessariamente farsi carico di quel tipo di tematiche; però, neanche che non lo possa fare. I cartoni animati così come i fumetti sono un linguaggio ed in quanto tale ci puoi fare tutto, dai saggi ai programmi di cucina. Nel mio caso, ho parlato di cose che sono all’ordine del giorno nei quartieri in cui abitiamo. Se una persona lo percepisce così disconnesso dal proprio quotidiano, è perché forse ha la fortuna di abitare in un posto in cui questi problemi non si pongono.
In questo senso, qual è il ruolo dell’artista? Nella serie il tuo Zero se lo pone questo problema.
Un po’ come prima, non penso che questa cosa sia dovuta da parte di nessuno. Se, per esempio, qualcuno fa un lavoro artistico che lo porta a contatto con tante persone, non si può pretendere che necessariamente prenda una posizione su tutto. Nel mio caso specifico, per il vissuto che ho, sarebbe assurdo se io non mi ponessi questo tipo di problema. Sono stato parte di collettività che in qualche modo hanno provato a cambiare e comunicare al mondo una serie di cose, sarebbe paradossale ora che ho un palco molto grande sottrarmi a questa responsabilità. Per come sono io, mi piacerebbe che chi ha una voce pubblica la mettesse al servizio del benessere collettivo; sempre se ce la sentiamo, senza sentirci costretti.
Ci credi allo scegliere “il male minore”?
Credo sia una questione di valutazioni e strategie personali. Non ho un approccio dogmatico alla questione, ma penso che se tu hai delle idee chiare ed un progetto da perseguire, allora questa scelta può essere giustificata. Se, invece, si basa sul nulla, è astratta ed è in generale uno scegliere “il male minore”, allora no.
Un’amicizia con ideologie completamente all’opposto è possibile?
Io faccio sempre distinzione tra le persone che pensano una cosa e quelle che, invece, si impegnano a farla succedere. Ho tantissimi amici d’infanzia che pensano cose diametralmente opposte alle mie, magari non ne parliamo o ci prendiamo bonariamente in giro, perché so che restiamo nel rango delle opinioni. Se poi, invece, quelle idee diventassero attive e loro, automaticamente, i carnefici di qualcuno, non potrei continuare a coltivare nessun tipo di amicizia.
La doccia fredda in questa serie arriva da Secco che ci ricorda che tutti siamo pieni di problemi ma questo non ci giustifica a comportarci male nei confronti degli altri. Secondo te, perché il dolore e gli sgambetti della vita anziché avvicinarci ci mettono in competizione?
Penso che viviamo in un mondo in cui non viene più prospettata nessun tipo di soluzione collettiva. Quelle persone che hanno promosso soluzioni che potessero mettere d’accordo tutti senza mettere in competizione nessuno, o non sono riuscite a rappresentare un’opzione vincente o quando si è presentata l’opportunità hanno fatto solo i loro interessi e non quelli della collettività. Lì dove ti ritrovi un bel discorso ma poi di fatto non ti garantisce nulla, finisce che pensi “alla fine resterò fregato io e miei cari”, e abbracci il “si salvi chi può” anche a discapito degli altri. E ho come l’impressione che sia un po’ quello che è successo negli ultimi decenni.
© Riproduzione riservata