Quando muori resta a me (edito Bao Publishing) è il nuovo fumetto di Zerocalcare, uno degli autori più amati e acclamati del panorama fumettistico italiano e internazionale. Il libro esplora profonde dinamiche familiari e personali. La trama segue Zerocalcare e suo padre in un viaggio verso un paesino delle Dolomiti, luogo d’origine della famiglia paterna.

Questo viaggio diventa un’opportunità per Zerocalcare di conoscere meglio suo padre, nonostante la difficoltà di comunicazione tra loro. Il fumetto approfondisce il tema della difficoltà, spesso presente nel lato maschile di generazioni passate, di esprimere emozioni profonde, un problema che Zerocalcare osserva nei suoi nonni, bisnonni e anche nel proprio padre.

Durante il viaggio, scoprono che la loro famiglia è malvista e addirittura odiata dagli abitanti del paese. Questo rancore ha radici lontane, risalenti a prima della Prima guerra mondiale, e si intreccia con un mistero significativo nella vita di Zerocalcare, noto come “il giorno di Merman”. La storia non solo esplora il complicato legame tra padre e figlio, ma affronta anche periodi oscuri della storia italiana. Zerocalcare adotta un tono molto profondo e riflessivo, offrendo un’opera incredibilmente intensa e personale.

Zerocalcare, sei un autore di enorme successo, con numerosi fumetti di grande rilevanza alle spalle, come La profezia dell’armadillo, Un polpo alla gola e Dimentica il mio nome (tutti editi Bao Publishing). Molti ti hanno conosciuto attraverso le due serie su Netflix, Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo. Queste serie sono state uno spartiacque nella tua carriera, oppure ci sono stati altri momenti altrettanto importanti, come ad esempio l’uscita di Kobane Calling?

Ci sono stati tantissimi spartiacque nella mia carriera: il blog è stato quello che mi ha permesso di arrivare a un pubblico vasto, Kobane Calling quello che mi ha permesso di unire l’impegno politico ai fumetti più personale, le strisce animate di Rebibbia Quarantine in pandemia di incrociare un pubblico vastissimo, le serie Netflix di avere un’esposizione internazionale. Ognuna di queste cose ha comportato una piccola rivoluzione, che ho cercato di assecondare senza tradire me stesso e il pubblico che già c’era. Spero di esserci riuscito nei limiti del possibile.

Nel tuo ultimo libro, Quando muori resta a me, affronti tematiche legate alla tua famiglia, in particolare il rapporto con tuo padre, ma anche questioni di crescita e di maturazione. C’è stato un evento o una situazione nello specifico che ti ha fatto sentire la necessità di esplorare proprio questi temi?

La visione al cinema di Aftersun, che racconta l’ultima estate di una ragazzina con suo padre. Mi ha smosso dentro così tante cose che mi sono reso conto di non aver mai esplorato davvero il rapporto con mio padre, né nei fumetti né nella nostra vita. Quella è la stata la molla iniziale, poi nel flusso della scrittura si sono rovesciate altre riflessioni ed emozioni che infestano questa stagione della mia vita che ruota attorno ai 40 anni.

All’interno di Quando muori resta a me risalta moltissimo una vignetta con una scelta stilistica molto particolare: il tuo autoritratto quasi iperrealista, in netto contrasto con il tuo consueto stile di disegno. Come mai questa scelta?

Mi andava che i lettori si rendessero conto della distanza che passa tra lo Zerocalcare fumetto e quello vero. O forse mi andava di farlo come promemoria per me stesso. Ricordarmi che quell’avatar è una specie di ritratto di Dorian Gray al contrario, lui rimane sempre uguale mentre io casco a pezzi.

Come ha reagito la tua famiglia, in particolare tuo padre, dopo aver letto il libro?

Mio padre non ha detto niente, mai. All’inizio credo sia rimasto stranito dal leggere in un libro cose di cui non abbiamo mai parlato ad alta voce. Poi è tornato tutto normale, e infatti abbiamo continuato a non parlarne. Mia madre prima era perplessa ma poi quando ha visto che su internet alla gente è piaciuto ha detto che è piaciuto anche a lei. Mi madre è così.

Il tema dei fumetti e della cover del mese di luglio di Finzioni è “Sparring partner”, come hai approfondito questo tema?

Lo sparring partner è quello che si prende i cazzotti per aiutarti ad allenarti. Nel mio caso è tutto un esercizio molto solitario, a menarci tutti i giorni nella speranza di venire a capo di qualcosa siamo io e la mia coscienza, che da qualche anno ha la forma di un armadillo.

Tornando a Quando muori resta a me, realizzare un libro di questo tipo implica riflessioni sul maschile e sulla figura del padre. Viviamo in un’epoca in cui il classico stereotipo dell’uomo “che non piange perché è forte”, interessato solo a calcio e alla Formula 1, è quasi una barzelletta.

Tuttavia, ci rendiamo conto che questo tipo di persone esiste realmente, spesso proprio all’interno delle nostre stesse famiglie. Questo può suscitare un misto di tenerezza, ingiustizia e rabbia, non credi?

Penso – spero – sia una barzelletta per le generazioni più giovani, ma per noi attrezzi degli anni Ottanta e per chi veniva prima era la normalità. E ho sempre pensato che quest’incapacità di verbalizzare le proprie emozioni e di dare voce alle proprie fragilità fosse doppiamente dannoso. Per noi stessi, perché ci fa vivere indossando una maschera che non corrisponde a quello che sentiamo dentro, e per le persone che abbiamo accanto, perché è nell’incapacità di gestire questi nodi irrisolti che si fa strada la frustrazione e la violenza.

Viviamo in un’epoca in cui quasi tutti sentiamo la necessità di esprimere una posizione su vari temi. Per chi ha un seguito, un pubblico, vasto e anche spiccate doti creative, questa responsabilità sembra raddoppiare. Che ne pensi? In questi tempi è necessario schierarsi e, se sì, quando pensi sia opportuno farlo?

Penso che sia la domanda di questo tempo e la risposta non può essere semplificata senza diventare ottusa. Penso che le persone che incarnano figure di rilievo di qualche tipo hanno la responsabilità di essere all’altezza del loro ruolo. Che significa anche essere in grado di esprimersi su questioni di rilevanza generale.

Questa consapevolezza però non è innata, e non può essere richiesta a comando. Le persone possono avere bisogno di tempo per costruirsi un’opinione, e preferisco una persona che mette in campo con onestà anche i propri dubbi, piuttosto che gente che si affretta ad accontentare i propri followers indignati per raccogliere qualche click.

Poi, ma mi rendo conto che questo dipende molto dalla mia formazione, per me la politica è sempre faccenda collettiva, e mai individuale. Quindi la necessità che abbiamo è che le persone con una certa visibilità si mettano in relazione con chi agita certi temi nella società, con i movimenti e con le lotte, e si metta a disposizione per fare da megafono. Di sicuro non ci servono altri mitomani che si svegliano al mattino e dicono la loro al pubblico per ritagliarsi una fetta di mercato senza rendere conto a nessuna collettività.

Gran parte del tuo lavoro si concentra sul rapporto, il rispetto e la lealtà verso gli altri, che si tratti di una comunità, della tua famiglia o di un gruppo di amici storici. Questo sguardo rivolto verso gli altri, anziché solo verso noi stessi, è una caratteristica che, per quello che osservi intorno a te, stiamo perdendo o intravedi qualche scintilla di speranza?

Tutta la narrazione e l’immaginario che abbiamo intorno si fondano sull’individuo, sul premiare quello che ce la fa da solo, che dimostra il suo valore facendo meglio di quelli che gli stanno intorno. Conta solo chi taglia prima il traguardo, non importa se è partito avvantaggiato, se gli altri non avevano nemmeno le scarpe, o se per arrivare ha sgomitato e scansato quelli che gli correvano accanto.

Io sono cresciuto con l’idea che non si può parlare di successo finché non ce l’hanno fatta tutti, ma sono il primo ad essere consapevole che per esempio io ho trovato una soluzione lavorativa e tanti amici miei no. Questa contraddizione mi fa abbastanza dannare e probabilmente è alla base di tutto il mio lavoro.


La cover del nuovo numero di Finzioni, firmata da Zerocalcare

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