La saga del videogame Resident Evil è arrivata all’ottavo capitolo e il suo successo non accenna a diminuire. Shinji Mikami, 59 anni, designer giapponese, dice che «gli zombie sono molto vicini agli esseri umani. Da ciò deriva il loro fascino: tra tutti gli scenari post-apocalittici irrealistici, è quello più realistico». Viaggio nella passione per un genere che fa ancora bene il suo lavoro: spaventare.
«Gli zombie sono molto vicini agli esseri umani. Da ciò deriva il loro fascino: tra tutti gli scenari post-apocalittici irrealistici, è quello più realistico». Shinji Mikami, 59 anni, designer giapponese del videogioco Resident Evil, non nasconde lo charme dei morti viventi sull’umanità. Dal vudù haitiano fino ai redivivi e strigoi est-europei, la figura del morto che ritorna ha prodotto grandi successi cinematografici, che hanno portato nell’Olimpo registi come George Romero, Sam Raimi e il rivalutato Lucio Fulci.

Proprio l’autore trasteverino di Zombi 3 è stato tra le ispirazioni di Mikami quando ha realizzato, insieme ai colleghi di Capcom, il primo videogioco di Resident Evil. Un titolo che ha dato il via a un franchise immortale, tra film, serie tv e fumetti, e che tuttora sbanca nelle classifiche dei blockbuster videoludici: la serie canonica – senza contare quindi spin-off vari ed eventuali – è iniziata nel 1996, ed è ora all’ottavo capitolo, sottotitolato Village e ambientato in Romania.
Quello che purtroppo spesso passa in secondo piano sono i come e i perché di questo successo tra un mondo distrutto dalle pandemie, complotti e sparatorie splatter. L’incipit è stato un film, anzi, un videogioco tratto da un film. Sweet Home, del 1989, trasposizione ufficiale dell’omonimo horror giapponese diretto da Kiyoshi Kurosawa, con cinque persone che si avventurano e rimangono intrappolate in una casa spettrale, e che nel tentativo di uscire devono in realtà sopravvivere a mille orrori e torture.
Complotti splatter
«Ci siamo ispirati al sistema del gioco tratto dal film: cinque persone che morivano una a una. E alla fine del gioco ne rimaneva soltanto una. A noi è piaciuto questo concetto, cioè quello della sopravvivenza», racconta Mikami in un’intervista a Domani. E infatti Sweet Home – nonostante la sua distribuzione limitata al paese del Sol Levante – è indicato spesso come il precursore del genere survival horror.
Un fac-simile della casa degli orrori dal film di Kurosawa è diventata quindi lo scenario del primo videogioco di Resident Evil, anche se il suo titolo originale è Biohazard. Una parola che mette l’accento sull’elemento scienza e pandemia di zombie. Ma alla fine, anche Resident Evil è un nome certamente evocativo: la residenza nel Midwest, poco fuori la città fittizia di Raccoon City, è il tetro scenario di una missione di soccorso, con gli agenti speciali Jill Valentine e Chris Redfield mandati per indagare sulla scomparsa dei commilitoni, avvenuta nei pressi della tenuta. Ed è così che Resident Evil realizza una sorta di “escape room” virtuale, con labirinti, puzzle da risolvere e risorse limitate, mentre i protagonisti finalmente capiscono che quella villa, forse, nasconde qualcosa.
Questa è infatti solo la facciata per un immenso laboratorio sotterraneo della Umbrella Corporation, una big pharma senza scrupoli che realizza ricerche su armi batteriologiche, e che con i suoi virus ha scatenato la pandemia di zombie. Sembra la trama di un b-movie, o il delirio di un complottista alla cena di Natale. Ma tanto basta per aver reso questa serie di giochi la valvola di sfogo per paure nascoste; con un pizzico di cinema d’autore tra La casa, di Sam Raimi, Zombi, di Romero, i film di Dario Argento e John Carpenter, ricorda Mikami.
Chimica della paura
Muoviti, fermati, girati sul posto, mira e spara. Qualcuno potrebbe dire che i primi Resident Evil funzionano esattamente come dei carri armati. E avrebbe ragione, in un certo senso. I personaggi si muovono nell’ambiente seguendo questa logica, ereditata proprio dai comandi dei tank da combattimento. Difficile quindi gestire i momenti concitati, serve padroneggiare i comandi sul joypad per muoversi correttamente tra i livelli. Questo dei “tank control” è solo uno dei piccoli dettagli che hanno contribuito a creare il mix della paura tipico di questi giochi. Oltre al tema, s’intende. I mostri e l’atmosfera – certamente inquietanti – bucavano però facilmente la parete dell’orrore per diventare grotteschi. Erano quindi i movimenti e le inquadrature i principali “colpevoli”. Merito loro se i primi Resident Evil erano delle efferate macchine di ansia.
Mikami e il suo team avevano infatti preso a piene mani dal cinema, utilizzando un sistema di inquadrature fisse, “fixed camera angles” in inglese. Nel senso che i giocatori, che in molti videogiochi possono controllare anche la telecamera e scegliere da quale punto inquadrare l’azione, qui invece si trovavano di fronte a una scelta a priori, come un film: l’occhio dello spettatore è veicolato dal regista. La posizione delle inquadrature faceva quindi parte della visione di Mikami, e l’orrore si poteva celare in quell’angolo cieco oltre la telecamera, entrando in scena inaspettatamente, oppure osservando in attesa di piombare addosso ai personaggi.
Dalla fine degli anni Novanta ci sono state molte evoluzioni tecnologiche, nonché vari cambi nel mercato e nei gusti del pubblico. Va da sé che questi elementi chiave di Resident Evil sono stati gradualmente sostituiti. Resident Evil è quindi passato – con il suo quarto capitolo - prima a una visuale in terza persona, ovvero alle spalle del personaggio Leon Kennedy, e poi – sulla scia di successi indie come Outlast – alla prima persona, con il settimo capitolo.
Ma la sua anima, sotto sotto, non è mai cambiata. Anche nelle iterazioni più controverse – il quinto e il sesto capitolo – dove c’è stata una deviazione di percorso verso il videogioco d’azione più caciarone. Legittime sperimentazioni, ovvio. Per poi trovare la direzione più “giusta” per il passato della serie. E anche se lo stesso Mikami – forse in un impeto di nostalgia – crede che l’impostazione dell’inquadratura nei primi capitoli fosse «più spaventosa». Una cosa è certa, i successivi Resident Evil – comunque - non hanno mai tradito la propria missione: spaventare tutte le generazioni possibili.
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