Nel libro Stranieri a noi stessi, Rachel Aviv, scrive di menti in bilico e identità al confine, ricostruendo la malattia di cinque persone. Secondo Aviv, le malattie mentali spesso sono considerate forze «intrattabili e incontrollabili» e ci sarebbe invece da chiedersi quanto «le storie che raccontiamo su di loro», soprattutto all’inizio, influenzano quel che accadrà
«Caro Presidente Clinton. So che il nostro Paese ha pochi fondi, ma la prego, non tagli i finanziamenti alla salute mentale!». Stati Uniti, 1993. La lettera che comincia con queste parole compare nelle ultime pagine del libro Stranieri a noi stessi, della scrittrice e giornalista statunitense Rachel Aviv, tradotto da Claudia Durastanti e pubblicato da Iperborea nella nuova collana I corvi, dedicata alla saggistica narrativa straniera.
Identità al confine
Il lettore conosce la mittente della lettera: è entrata in scena all’inizio del libro, paziente dodicenne ricoverata in ospedale che racconta al diario le proprie giornate usando le parole dei medici attraverso cui sta imparando a capire sé stessa. Il suo nome è Hava e, dopo l’arrivo di Rachel (l’autrice del libro), come lei in cura per anoressia, annota: «Dio santo ha solo sei anni».
Aviv scrive di menti in bilico e identità al confine e, ricostruendo la malattia di quattro persone – Ray, Bapu, Naomi, Laura – in altrettanti capitoli e quella di Hava nel prologo e nell’epilogo, si chiede quanto la storia proposta dai medici possa intrappolare una persona. Nel corso delle pagine, l’autrice cita molti altri testi, saggi e opinioni di chi si è confrontato con la medesima domanda, tra cui il filosofo Ian Hacking, autore di un saggio su bambini a cui, in Svezia, era stata diagnosticata la sindrome della rassegnazione.
Parole responsabili
Secondo Hacking, può accadere che le persone trovino un modo per esprimere la propria angoscia tramite l’imitazione finché alla fine non hanno acquisito un nuovo stato psichico. Sono casi di storie sulla malattia che «si autoavverano». Le parole sono importanti e, con persone al confine tra la condizione che consideriamo normalità e l’oltre che etichettiamo come follia, la responsabilità di quali parole sono scelte e proposte loro da chi li prende in cura è ancora più grande. Le parole, anche poche, in questo caso possono segnare una vita intera.
Per questo l’autrice torna più volte sulla questione della propria età al momento dell’insorgere del disturbo alimentare: «Può essere che fossi troppo giovane per far attecchire il comportamento anoressico in me» (aveva «solo sei anni», appunto). Altrimenti, avrebbe potuto «avere più rinforzi sociali» e avrebbe potuto «sviluppare una “carriera” nell’anoressia». Forse era «troppo piccola per captare il modo in cui le persone a tavola si scambiavano sguardi infastiditi» e ha avuto quindi «la libertà» di annoiarsi del proprio comportamento «e di andare avanti».
Rachel e Hava
La malattia non era «allettante» per lei come lo sarebbe stato invece più tardi, alle scuole medie, per le sue amiche. Come lo era stato per Hava. Sei anni Rachel vs dodici anni Hava. «La differenza tra la mia malattia e quella di Hava forse consiste in un paio d’anni». Aviv è «sconvolta dalla miseria di questo fatto». Soprattutto perché, mentre scrive il libro, Hava non c’è più: è morta nel sonno a causa delle conseguenze sugli organi interni causate dalla bulimia che aveva sviluppato intorno ai vent’anni. «Aveva vomitato nel sonno ed era rimasta asfissiata» perché i suoi muscoli dell’esofago si erano ormai dilatati.
Intorno ai vent’anni di età sono stata bulimica anch’io per qualche anno, e non saprei dire come ho fatto a uscirne. A un certo punto ho deciso di smettere di vomitare e di accettare che avrei messo su chili: me ne sarei occupata in un secondo momento. L’importante era smettere di cacciarsi le dita in gola. Perché ci riuscii? Aviv racconta che spesso Hava cominciava nuovi quaderni di appunti con il proposito di diventare una persona diversa. Scriveva «Un nuovo inizio!», ma poi si trovava davanti a un bivio: affrontare il «dolore iniziale della solitudine e del vuoto» e costruirsi da zero una vita oppure tornare alla «familiarità» del suo disturbo alimentare.
Lo stigma
Era disorientata dall’aver preso un po’ di peso, avrebbe «dato tutto» per tornare alla sua «identità da anoressica dipendente» e, come detto, intorno ai vent’anni diventò bulimica.
Ho letto con dolore le parole del suo diario di quell’epoca. Sono pagine piene di liste di cibi consumati «in uno stato alterato prima di vomitare», e so bene di cosa parla. Per Hava, a quel punto l’unica cosa su cui le è possibile focalizzarsi è il cibo: «Sempre il cibo!», scrive. È una malattia eppure, e qui Aviv si serve delle parole dell’antropologa Rebecca Lester, «nell’immaginario popolare i disturbi alimentari vengono ancora fatti coincidere con una scelta», quindi sono ritenuti una malattia, sì, ma «nella quale chi soffre è responsabile».
Il fidanzato di Hava – che l’ha trovata morta nel letto e con cui la ragazza stava costruendo una relazione d’amore, di alleanza e di sostegno reciproco basata sull’assenza di giudizio e sulla condivisione delle rispettive fragilità – ha detto all’autrice: «Forse c’è uno stigma unico associato alla donna anoressica adulta, come se si stesse cacciando in quel problema da sola per via della vanità». Aviv cita anche la riflessione di Louise Glück, premio Nobel per la Letteratura nel 2020, morta lo scorso ottobre a 80 anni, che era stata anoressica: «La tragedia dell’anoressia è che il suo intento non è autodistruttivo, anche se il suo esito spesso lo è. Il suo intento è costruire, nell’unico modo possibile quando i mezzi sono limitati, un sé plausibile».
In un diario che teneva in seconda elementare, Aviv aveva scritto di avere avuto l’anoressia perché voleva «essere qualcuno migliore di me». Ora, alla luce delle parole di Glück, scrive che la propria esperienza con la malattia potrebbe essere giudicata un successo e racconta di come, dopo che lasciò l’ospedale, i suoi genitori si «rimettevano» alle sue opinioni e in generale «tutti stabilirono confini più netti in famiglia».
I vincoli e le trappole
Nel diario di Hava, Aviv ha trovato anche le parole scelte poi come titolo del libro: «Credo di essere una di quelle persone che si capisce alla perfezione da sola, eppure sono straniera a me stessa». Davvero Hava si capiva alla perfezione? Riusciva a «elencare i fattori che avevano contribuito all’emergere della sua malattia, ma non sapeva come muoversi da lì in poi», ci dice Aviv. Non trovò, cioè, mai un’altra storia per sé.
Secondo Aviv, le malattie mentali spesso sono considerate forze «intrattabili e incontrollabili» che si impossessano delle vite delle persone, e ci sarebbe invece da chiedersi quanto «le storie che raccontiamo su di loro», soprattutto all’inizio, influenzano quel che accadrà: «Le persone possono sentirsi liberate da queste storie, ma anche rimanervi intrappolate».
Riflettendo su cosa la salvò, Aviv scrive che Hava aveva un ottimo insight, era consapevole della malattia e scriveva dei propri «squilibri chimici». All’opposto, la bambina Rachel – che aveva «solo sei anni» – non lo era affatto e quando ricominciò a mangiare fu per caso, ma forse la decisione le fu possibile perché le spiegazioni dei dottori significavano poco per lei.
«Non ero vincolata a una storia particolare sul ruolo della malattia nella mia vita. Ci sono storie che ci salvano e storie che ci intrappolano».
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