C’è una lunghissima storia della credenza in questo essere spirituale e misterioso che in molte tradizioni religiose rappresenta il male. È stato raffigurato nei modi più diversi, e non sempre è spaventoso
Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge, recita un proverbio per esprimere un’esperienza comune: spesso una persona o una situazione si rivelano meno peggiori del previsto. Ma la frase può essere applicata anche alla lunghissima storia della credenza in questo essere spirituale e misterioso che in molte tradizioni religiose rappresenta il male; soprattutto se si guarda all’origine e ai suoi volti. Il diavolo infatti è stato raffigurato nei modi più diversi, e non sempre è spaventoso.
Il maestro e Margherita
Nel romanzo Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, rimasto inedito fino al 1967, il protagonista è lui. «Il Diavolo è il più appariscente personaggio del grande romanzo postumo del riscoperto scrittore» e in un afoso tramonto di primavera si manifesta in persona «a due cittadini, uno dei quali sta enumerando le prove dell’inesistenza di Dio. Il neovenuto non è di questo parere. È un uomo che la sa lunga» scrive Eugenio Montale sul Corriere della sera.
Siamo nella Mosca al tempo di Stalin e qui arriva il demonio descritto da Bulgakov, autore anche di una Diavoleide: «La sua statura non era bassa, né enorme, ma solo alta. Quanto ai denti, a sinistra aveva capsule di platino, a destra d’oro. Indossava un vestito grigio di gran prezzo, e scarpe straniere del colore del vestito. Portava un berretto grigio sulle ventitré, sotto l’ascella aveva una canna nera con pomo nero a forma di testa di can barbone. Dimostrava una quarantina d’anni. La bocca storta. Ben rasato. Bruno. L’occhio destro nero, quello sinistro, stranamente verde. Sopracciglia nere, ma una più alta dell’altra. In poche parole, un forestiero».
Dall’antico Egitto alla Bibbia
Nell’antico Egitto i demoni sono spesso figure temibili: svolgono anche una funzione retributiva, impediscono ai morti di entrare nell’aldilà e il gigantesco serpente Apopi – sempre sconfitto ma di continuo rinascente – insidia il viaggio notturno della barca di Ra, la divinità solare. Nell’induismo sono ambivalenti e il più delle volte malvagi. Così anche nelle religioni sumerica e accadica, dove si aggirano nel deserto popolando sogni e terrori.
Dalla Bibbia ebraica trapelano tradizioni antichissime, come in una profezia di Isaia (14, 12-15) contro il re babilonese: «Come mai sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: “Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo”. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!».
Una creatura angelica
A questo brano pensa forse Gesù nel Vangelo di Luca (10, 18) quando dice ai discepoli che tornano a lui dopo aver sottomesso i demoni: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore». E nei commenti cristiani al libro di Isaia l’invettiva contro la smisurata ambizione del sovrano di Babilonia è interpretata come la caduta di Lucifero, l’astro del mattino che porta la luce, in latino lucifer. Tradizioni ebraiche, poi riprese nel Corano, attribuiscono la caduta di questo angelo – Iblis nelle tradizioni islamiche – al suo rifiuto di prostrarsi davanti all’immagine di Dio che è in Adamo.
Il demonio è dunque una creatura angelica, dalle fattezze originariamente bellissime: «S’el fu sì bel com’elli è brutto, e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto» sintetizza Dante alla fine dell’Inferno.
Nella tradizione iconografica cristiana, ripercorsa da Laura Pasquini (Il diavolo, Carocci), in età tardoantica l’angelo del male quasi non si distingue da quello del bene. Come in un mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, agli inizi del VI secolo, che raffigura Cristo, senza barba e vestito di viola, seduto a separare le pecore dai capri nel giudizio finale.
Ai lati del giudice stanno in piedi due angeli alati: alla sua destra quello buono, in arancione, e a sinistra quello malvagio, con una veste azzurro cupo. Il viso accenna a un lieve sorriso, ma dalla tunica spuntano due zampe animalesche, quasi impercettibili. Più ancora di queste, colpisce e lascia un senso di inquietudine il volto, dov’è assente quell’«assoluta frontalità» che nei mosaici ravennati «esprime spesso la condizione simbolica di perfezione», come ha notato Fabrizio Lollini.
Il bluastro torna nel medioevo a colorare il demonio, ora orrendo nei giudizi universali: a Torcello, in quello di Giotto nella cappella padovana degli Scrovegni e, un quarantennio prima, anche nel mosaico attribuito a Coppo di Marcovaldo nel battistero di San Giovanni a Firenze. Qui spicca enorme Lucifero e dal suo capo mostruoso fuoriescono tre dannati divorati: l’immagine sicuramente ispira Dante, come sottolinea Saverio Bellomo nel suo commento all’Inferno (Einaudi).
Fuoco e fiamme
Duplice nelle sembianze il demonio si manifesta in alcuni testi cristiani diffusissimi sin dalla tarda antichità: nella Vita di Antonio – il santo la cui festa, il 17 gennaio, apre con falò propiziatori il carnevale – scritta dal vescovo Atanasio, vero e proprio best seller cristiano, e nelle storie di altri santi popolari: Martino di Tours e Benedetto da Norcia, eroe dei Dialoghi di papa Gregorio Magno. Celeberrime, le tentazioni di sant’Antonio oscillano tra apparizioni di demoni spaventevoli e visioni provocanti, ma altrettanto demoniache, che ispirano artisti visionari per secoli, da Hieronymus Bosch e Salvador Dalì.
La storia del diavolo s’intreccia ovviamente con quella dell’inferno, rileva Matteo Al Kalak in Fuoco e fiamme (Einaudi), che si orienta sicuro anche nella «geografia» del regno infernale, il più delle volte ubicato sottoterra. Elucubrazioni cinquecentesche lo calcolano a settemila chilometri di profondità, e le sue porte sono in genere collocate nei vulcani. Anche se per il Vesuvio il gesuita Giulio Cesare Recupito nel 1632 smonta la credulità popolare con una felice trovata: se dal Vesuvio si entrava all’inferno, «rappresentava Napoli il paradiso».
Cristo stesso scende all’inferno: morto sulla croce, «nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere» si legge nella Prima lettera di Pietro (3, 19). È il fondamento biblico più chiaro della credenza secondo la quale Cristo «discese agli inferi», come afferma il Credo detto degli apostoli, che a messa talvolta sostituisce quello più lungo.
L’articolo di fede suona del tutto «estraneo alla nostra coscienza odierna», riconosce Ratzinger nell’Introduzione al cristianesimo (Queriniana), ma è anche il più vicino all’«inaudita esperienza del nostro tempo»: l’assenza di Dio. Della rivelazione cristiana fa parte infatti «anche il silenzio di Dio».
«Discese agli inferi»
Ma Cristo apre le porte della morte e dell’inferno, anzi le sfonda con un calcio, come in modo molto realistico intorno all’820 si vede nel Salterio di Stoccarda. Il tema della discesa di Cristo agli inferi ricorre nelle icone, e l’aldilà del medioevo bizantino – compreso un luogo intermedio di purificazione delle anime dei morti – non è lontano da quello occidentale. Con narrazioni e credenze popolari suggestive raccolte (e in parte tradotte per la prima volta) da Tommaso Braccini e Luigi Silvano (La nave di Caronte, Einaudi) fin quasi all’età contemporanea.
Una «mostruosa soluzione figurativa» ricorre nell’iconografia medievale fin dall’XI secolo: Satana ingoia i dannati, poi li espelle defecando, divenendo così – scrive Pasquini – «una macchina divoratrice che costringe le anime a una costante rinascita nel dolore senza fine». Forse colpito da queste rappresentazioni, Francesco d’Assisi suggerisce a uno dei suoi primi compagni tentato dal demonio, che più volte gli appare sotto le sembianze del Crocifisso, di esorcizzarlo in modo spiccio con un insulto popolaresco e sanguigno che sembra anticipare il contrappasso dantesco.
Ecco dunque il diavolo ritornare e ripetere a Ruffino parole d’inganno e menzogna: «Che ti giova affligerti mentre che tu se’ vivo, e poi quando tu morrai sarai dannato?». Ma a quel punto – si legge nei Fioretti – «subitamente frate Ruffino risponde: “Apri la bocca, mo’ vi ti caco”. Di che il demonio isdegnato, immantinente si partì con tanta tempesta e commozione di pietre di monte Subasio ch’era in alto, che per grande spazio bastò il rovinio delle pietre che caddono giuso». Come il santo, per rivelazione dello Spirito santo, aveva previsto.
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