Lo scrittore in dialogo con ragazzi e ragazze ha riconosciuto i problemi nei rapporti tra studenti e docenti. Ma dalla discussione è emersa anche la necessità di un patto di reciprocità e di rinnovata fiducia tra tutti
Un privilegio donatomi dalla cieca ostinazione a battere sulla tastiera unita all’insegnamento secondario è stato la possibilità di incontrare Domenico Starnone e dialogare con lui e con un pubblico costituito per la maggior parte da adolescenti, al Festivaletteratura di Mantova, per confrontarci sulle rispettive esperienze di docenti e sul nostro rapporto con la scuola che è cambiata e continua a cambiare.
Ora, come le mie gambette tremolanti si aspettavano, Starnone ha detto una serie di cose bellissime e sagge sull’utilizzo della parola scritta, sul mestiere di insegnante e su quanto un costante senso di umanità dovrebbe legare entrambe le esperienze: parole semplici ma lucidissime, che mi hanno commosso per quanto ho sentito vere e mie. Alcune le ho segnate e le riporto qui: «Anche la peggiore delle scuole è utile e necessaria, dev’essere amata e rispettata, dev’essere violentemente criticata. Rinunciare a tutto questo non è solo sbagliato, è un crimine».
Pur ammettendo di non insegnare da decenni e quindi di essere fuori dalle attuali dinamiche scolastiche, l’ascolto delle riflessioni mie ma soprattutto di quelle delle diverse – coraggiose – studentesse che hanno preso la parola nella bellissima sala di palazzo della Ragione, hanno portato Starnone a credere che la sostanza di alcune delle questioni annose e problematiche della scuola sia rimasta più o meno invariata; senza considerare l’aggiunta dei cambiamenti strutturali che hanno traghettato verso le note e discusse, benché più o meno supinamente accettate, burocratizzazione e aziendalizzazione.
Un’occasione persa?
Una studentessa in particolare, Lisa, parlava di disattenzione e disinteresse di molti docenti nei confronti dei ragazzi, di come le circostanze portino lei e i compagni a identificarsi coi voti assegnati, della delusione di aver cominciato il percorso superiore con curiosità ed entusiasmo e ritrovarsi invece, spesso, preda dell’ansia, quando non del terrore, andando a scuola malvolentieri e rammaricandosene, perché le sembra uno spreco, un’occasione persa.
«Non solo mi pare che questi problemi esistessero già quando a scuola insegnavo io», rifletteva Starnone in risposta a Lisa, «mi pare addirittura che questi problemi esistessero quando a scuola andavo io».
Sicché abbiamo risposto a fatica alle questioni sollevate dalle ragazze, perlopiù limitandoci a dar loro ragione e ammettendo che tanta parte delle criticità della scuola deriva dalle mancanze di noi insegnanti, dall’incapacità di focalizzarci anzitutto sul benessere degli allievi e, in generale, su ciò che sarebbe giusto – per impreparazione, pigrizia, scoramento, per paura di reazioni ostili da parte dei familiari – in una corsa a pretendere e performare frutto del “pompaggio” di ministeri sempre più stralunati e miopi.
Anche questo tuttavia è venuto fuori, il bisogno del patto di reciprocità, la buonafede nei confronti gli uni degli altri: il che dovrebbe valere tanto per gli insegnanti quanto per gli studenti. E per le famiglie alle loro spalle, che possono costituire un enorme aiuto o un enorme ostacolo all’educazione scolastica dei propri figli.
Fiducia e responsabilità
Senza una volontà comune tesa al medesimo sforzo e ai medesimi obiettivi, si farà sempre fatica a trovare strategie per la costruzione di un sapere che abbia alla base relazioni equilibrate.
Se a noi docenti toccano i compiti estenuanti di gettare le basi perché gli studenti sviluppino fiducia in noi e nella nostra capacità di guidarli, mantenere alta l’attenzione e, ancora, cercare di non cadere preda delle debolezze che ci trasciniamo dietro e della stanchezza che settimana dopo settimana stratifica, se siamo tenuti a non portare in classe malumori e frustrazioni per scaricarli addosso ai ragazzi, aspirando a essere maestri, per quanto possibile, avveduti; gli studenti avrebbero l’altrettale compito di fidarsi e affidarsi, di non delegare a noi i compiti che li riguardano in prima persona, di non aspettarsi che i risultati piovano dal cielo: insomma, in una parola, di crescere.
E crescere è questione faticosa, complessa, delicata, dolorosa, non scontata, di cui però c’è bisogno che gli studenti si facciano carico con coraggio. L’orgoglio di cui parla, tra gli altri, Margherita Oggero nel suo pamphlet Orgoglio di classe. Piccolo manuale di autostima per la scuola italiana e chi la frequenta (Mondadori, 2008) potrebbe partire, allora, dall’assunzione in piena coscienza delle proprie responsabilità e dal provare ad adempiere ai propri compiti, noi come loro, senza lamentarci troppo e nella considerazione e nell’ascolto dell’altro: da parte nostra dovremmo tentare, passo passo, di mettere in pratica questi buoni propositi con occhi ben aperti e calma olimpica di fronte ai sicuri imprevisti.
Fermi e orgogliosi
Con Starnone, rimarcavamo come tanto la letteratura quanto la scuola debbano essere democratiche, per tutti e aperte a tutti, ma come allo stesso tempo, inutile girarci intorno, comportino fatica. Il contesto in cui, talvolta nostro malgrado, ci troviamo a operare non è certamente ideale, eppure sarebbe utile che gli sforzi di insegnanti e studenti puntassero il più possibile verso una direzione precisa: sarebbe necessario, pur nell’evidenza delle difficoltà e dei limiti, operare per ristabilire un’ottica positiva, portare avanti un’idea di scuola come luogo non coercitivo, di opportunità formative liberamente scelte da ragazzi supportati dalle famiglie e che, ripetiamolo con serenità e anche col sopracitato orgoglio, presuppone impegno ed è equo nel valutarlo.
Insomma, nel tentativo di formare alunni competenti e, si spera, sensibili e aperti all’altro, dovremmo renderli anche consapevoli di sé, delle proprie azioni e di quanto li circonda. Gente con le antenne dritte, capace di orientarsi nel mondo. Non condivido del tutto il timore di alcuni colleghi per cui, se si pongono determinati studenti di fronte a un elevato carico di responsabilità, si rischia di fare peggio, di “perderli”.
Ho imparato a credere che da un atteggiamento troppo esitante derivi uno svilimento del senso stesso del nostro lavoro, un’immagine fragile e confusa e il messaggio che la scuola italiana sia qualcosa di fondamentalmente poco serio e privo di consequenzialità.
La scuola, senza che nessuno si fasci la testa né si crogioli in apocalittismi di sorta, dovrebbe mandare un messaggio tanto di gentilezza quanto di chiarezza, coerenza, fermezza, per salvaguardare la dignità di cui si fa un gran parlare ma che poi noi per primi facciamo pochissimo per preservare, perché anche quello è faticoso.
Al netto delle sacrosante individualizzazioni e della tutela assoluta delle reali difficoltà, chiudere entrambi gli occhi e mandare avanti ragazzi che non si sono preoccupati nemmeno di raggiungere gli obiettivi minimi, pur potendoci arrivare senza alcun impedimento e oltretutto coi nostri sproni e il nostro supporto, contribuisce non ad “aiutarli” ma solo a ratificarne la pigrizia e non fa bene né a loro né all’immagine pubblica della scuola.
Sono prassi che di quest’ultima intorbidiscono le acque, fortificano l’indecisione, aumentano i balbettii, in generale avallano le accuse di scarsa credibilità di cui pure facciamo un gran lamentarci agitando i pugni, d’estate, quando i registri tacciono, i media cianciano e noi, umiliati e offesi, denunciamo il delitto di lesa maestà.
Mettiamoli sempre al primo posto, i nostri studenti, cerchiamo di aiutarli in ogni modo e fino all’ultimo giorno. Impegniamoci per creare lezioni interessanti e coinvolgenti. Non impauriamoci, però, di fronte alla necessità di dare lezioni. Siamo fermi e orgogliosi. Renderemo fermi e orgogliosi anche loro.
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