Chi l’avrebbe detto che sarebbe stato lui, con cinque sere all’anno a disposizione, a fare la grande riforma? Investito di un ruolo che è valutato alla stregua del capo dello stato, è stato capace di cambiare e crescere
Ci lasciamo alle spalle anche questo festival di Sanremo, ma ci resta in bocca un sapore dolceamaro e nelle orecchie il ritmo ossessivo della cassa dritta, sponsor ufficiale di questa edizione.
A guardare avanti proviamo un misto di sollievo e horror vacui: da una parte mancano 360 giorni al prossimo Sanremo, dall’altra mancano 360 giorni al prossimo Sanremo! E del doman non v’è certezza, come diceva qualcuno che capiva benissimo il senso di spaesamento in cui ci saremmo trovati nel momento di dire addio a un direttore creativo come Amadeus ai tempi di un governo di destra.
E chi l’avrebbe detto che sarebbe stato Amadeus, l’uomo della riforma? Chi l’avrebbe detto che sarebbe stato lui, con cinque sere all’anno a disposizione, a rieducare questo paese? A rieducare anche se stesso, mi verrebbe da dire, ora che si è concluso il suo quinto mandato con un’edizione così retta da diventare noiosa, così ineccepibile da non essere più interessante, così stravotata da mandare in palla il televoto, completamente priva di belle figheire decorative dall’inizio alla fine e vinta da una donna, la prima in dieci anni di sagra della salsiccia.
Il nostro Ken
La vittoria di Angelina Mango, che oltre ad essere una donna è anche giovane, chiude il cerchio del regno di Ama, un uomo che è arrivato facendo brutte figure e straparlando di passi indietro, e se ne va cantando Bella ciao in quelle stesse conferenze stampa, per poi incoronare una ragazza eletta dal popolo.
Mentre venerdì sera lo guardavo muoversi con disinvoltura nel suo blazer Gai Mattiolo coperto di paillettes rosa, ho capito: Amadeus è il Ken di Greta Gerwig e il suo lavoro è “festival”.
Come Ken ha sentito il richiamo del maschilismo, per gran parte della sua carriera ci ha sguazzato dentro con la dolce inconsapevolezza di chi non ha responsabilità verso nessuno, ma investito di un ruolo che in Italia è valutato alla stregua del presidente della Repubblica, è stato capace di cambiare, di crescere, di abbracciare nuove realtà e sostenerle (o almeno fingere bene di farlo), di accontentare millennial e Gen Z, di portare a Sanremo un direttore d’orchestra che si scrive “Fuck patriarcato” sulla mano in favore di camera e non fare una piega, di ascoltare con espressione contrita gli appelli di pace fuori scaletta, che venissero da un uomo di orsetti vestito o da un lamantino di gommapiuma.
Questo è il massimo della rivoluzione che possiamo aspettarci da Rai1 coi tempi che corrono, e Amadeus ne è il volto (ma è sempre un maschio! Direte voi. Eh vabbè, una cosa alla volta).
La fine di un’èra
Un uomo nuovo? Un paese sulla via del progresso? Un paraculismo senza limitismo? Chi può dirlo. Di sicuro alle 2:40 di domenica mattina, mentre guardavo Amadeus e Fiorello allontanarsi su un cocchio pieno di cuori, ho percepito la malinconia della fine di un’èra, con una punta di commozione.
Forse era solo la stanchezza combinata all’improvviso senso di vuoto che mi assaliva dopo cinque giorni passati a guardare Sanremo, parlare di Sanremo, scrivere di Sanremo. Forse ho solo un problema con gli addii. Forse ho la sindrome di Stoccolma. Fatto sta che il giorno dopo sono triste come se Amadeus fosse morto e mi chiedo con apprensione se Gai Mattiolo chiuderà i battenti ora che Ama non metterà più le sue brutte giacche davanti a milioni di italiani.
Nella fredda luce di una mattina di febbraio, mi rimane un solo grande rimpianto: dopo lo sfavillante rilancio di Paola e Chiara, i tempi erano maturi per il ritorno di Alexia, e ora che Amadeus non c’è più vedo questo sogno svanire. Se non lui, chi? Se non ora, quando?
Non leggere i commenti
In quanto al paese sulla via del progresso mi sento di non esagerare con l’ottimismo: in questi giorni ho avuto un assaggio del livello medio dello spettatore italiano, gentilmente offerto dalla sezione dei commenti di Instagram, e mi sento di decretare che tra i diversi temi a cui il festival di Sanremo ha scelto di dedicare un po’ di attenzione in questi anni ne mancava uno fondamentale. Va bene la violenza di genere e il bullismo online e le foibe e i trattori, ma c’è una vera piaga che affligge l’Italia ed è il mix letale di analfabetismo funzionale e mancanza di senso del tono.
Ora, forse sono io che non sono abituata a suscitare interesse in nessuno a parte mia madre, ma quando nella settimana in cui mi occupo di Sanremo e le cose che scrivo non sono protette dal filtro della civiltà che chiamiamo paywall mi ritrovo a fare i conti con l’internet e con le sue opinioni sul mio conto, non posso dire che sia un’esperienza gratificante.
Purtroppo in queste circostanze ho contravvenuto al mio unico imperativo morale, un insegnamento che mi viene da nostra signora RuPaul Charles: paga le tasse e non leggere i commenti.
Seppur sia sempre disposta a pagare le tasse, invece i commenti questa settimana li ho letti, molti contro la mia volontà, essendo spesso formulati da persone abbastanza maleducate da notificarmi il loro malcontento o comunicarmelo via messaggio privato.
Ammetto che un tempo mi piaceva litigare sull’internet, ma era solo perché non avevo un lavoro. Ora che ce l’ho mi accontento di formulare risposte brillanti nella mia testa, e del senso di superiorità che mi fa provare guardare un messaggio molesto che rimane senza risposta.
Quello che ho imparato
E queste sono pur sempre occasioni di crescita e di studio sociologico non indifferenti: ecco alcune cose che ho imparato dal piccolo campione di insulti che ho ricevuto nella settimana passata:
- I pugliesi sono più permalosi dei napoletani
- Sanremo è più divisivo del conflitto in medio oriente
- Se segnali che il conflitto in medio oriente è una cosa seria e per parlarne sarebbe opportuno non essere vestiti da pagliacci, sarai trattata come avessi personalmente lanciato un missile a Gaza
- Il concetto di pagella viene preso molto sul serio, non importa quanto dichiaratamente ironico sia il tono
- “Classista” is the new “radical chic”, un insulto jolly usato a sproposito
- Il senso dell’umorismo ora si chiama spocchia
- La comprensione del testo è un’arte morente
Mentre l’onda lunga di Sanremo invade i palinsesti televisivi e radiofonici ancora per un po’ e noi facciamo il possibile per tornare ad ascoltare i nostri stessi pensieri sotto al ritornello di Annalisa che non riusciamo a toglierci dalla testa, la settimana del festival si dilegua lentamente come un sogno della mattina.
Nella penombra delle prime ore del giorno ci chiediamo se fosse tutto vero e riprendiamo confidenza con la realtà che ci circonda: davvero i Ricchi e Poveri sono usciti sul palco avvolti in fiocchi e mani giganti? Davvero John Travolta si è esibito nel Ballo del qua qua, circondato da papere gialle a grandezza umana? Davvero Fiorella Mannoia ha bestemmiato durante tutte le sue esibizioni?
In questo limbo ci riacclimatiamo alla grigia monotonia delle nostre vite normali, senza ricordarci bene che aspetto avessero prima della settimana del festival. Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato della kermesse, e con un occhio incerto sul futuro del festival. Di una cosa sola siamo sicuri: non guarderemo la fiction su Mameli, non importa quante volte ci abbiano costretto a guardarne lo spot.
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