I casi della scrittrice Shibli e del vignettista Bell mostrano che in un certo senso anche noi siamo dentro i conflitti. Sarà sempre più difficile mantenere l’edificio del liberalismo e fare i conti con chi abbraccia il blocco “sbagliato”
Non si era ancora sopito l’orrore per l’attacco di Hamas contro Israele che l’opinione pubblica mondiale ha dovuto confrontarsi con l’orrore supplementare delle bombe israeliane su Gaza. Presso gli osservatori europei, la tentazione di alzare la voce per condannare la violenza si è confusamente mescolata alla necessità opposta, quella di serbare un rispettoso silenzio.
Qualcuno, celebre o meno celebre, ha ritenuto di esternare sui social il suo appoggio a una delle due cause. D’altra parte c’è chi ha preferito denunciare chi prendeva posizione; con l’accusa, ricorrente, di fare “tifo da stadio”. E poi abbiamo letto tanti commenti all’insegna dell’equilibrismo, tanto condivisibili quanto un po’ inutili. La difficoltà fondamentale consiste nel riuscire a tenere assieme la condanna della violenza con la necessità di osservare la questione nel quadro più ampio che risale al 1948, al 1934, al 1917 o forse all’anno zero. Unire, insomma umanità e razionalità.
Cancel society
È bastato un tweet contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu, a Patrick Zaki, per scatenare polemiche e far rimandare la sua ospitata televisiva da Fabio Fazio (da cui è poi stato domenica sera). Allora, che tempo che fa? Non buonissimo, evidentemente, per la libertà di espressione. Quanto alla scrittrice palestinese Adania Shibli, è stata cancellata la sua premiazione alla Fiera del libro di Francoforte: secondo alcuni, il suo romanzo conteneva elementi antisemiti.
Nel Regno Unito, il Guardian ha licenziato il suo storico vignettista Steve Bell, anche qui con l’accusa di antisemitismo. Nel citare una celebre caricatura di David Levine che mostrava il presidente Usa Lyndon B. Johnson con una cicatrice a forma di Vietnam, Bell aveva disegnato Netanyahu nell’atto di asportarsi col bisturi una libbra di carne a forma di striscia di Gaza. Difficile non vedervi un riferimento esplicito – e perciò abbastanza disgustoso – all’usuraio Shylock, antagonista del Mercante di Venezia di Shakespeare, figura celeberrima dell’usuraio ebreo che occupa l’immaginario occidentale. Qualcuno risponde che, secondo i criteri prettamente liberali, la satira ha il diritto e forse il dovere di essere disgustosa.
Simili censure, come ce ne furono nel 2022 contro autori russi o considerati filorussi, possono avere cause diverse: dallo zelo di funzionari senz’anima a serie ragioni di ordine pubblico. Non c’è bisogno di scomodare la cancel culture, ovvero un preciso orientamento ideologico, perché la verità è semmai che stiamo diventando una cancel society, nella quale il controllo dei canali di comunicazione è una posta in gioco sempre più importante.
In fondo quello che è accaduto a Zaki e Shibli può accadere a tutti: subire un danno reputazionale o professionale a causa di un’opinione dissonante. Le guerre, si sa, portano con sé un clima di unità nazionale. E con esso alcune smagliature nel tessuto democratico. Quando però le guerre diventano la regola, e in ogni momento ce n’è almeno una in corso, allora anche le smagliature nella democrazia rischiano di diventare permanenti. Come dobbiamo comportarci?
L’arte della prudenza
Il cittadino postmoderno si trova oggi confrontato a una ingiunzione paradossale: pensati libero (cit. Chiara Ferragni) ma rispetta comunque una montagna di norme se non vuoi subire la gogna pubblica. Il problema è che queste norme non sono scritte da nessuna parte, cambiano continuamente e sono diverse da un contesto all’altro. Bisognerebbe conoscere la regola del gioco, ma il gioco consiste nel scoprire la regola del gioco.
Tenersi fuori dai dibattiti politici più incandescenti è senza dubbio la scelta più prudente per chi non vuole far danni. La scelta più prudente, insomma, sarebbe anche quella massimamente impolitica. Come nel vecchio Wargames: uno strano gioco, insomma, in cui la mossa migliore consiste nel non fare nulla. Ma questo approccio pone almeno due problemi.
Il primo problema è che non è facile: come tenersi fuori, ad esempio, dall’accusa di… tenersi fuori, e quindi di essere indifferenti o disinformati o implicitamente dalla parte del più forte? Quali strane acrobazie retoriche dovrebbero fare un attivista egiziano o una scrittrice palestinese, a fronte dell’aspettativa in loro riposta da entrambe le parti, per non turbare assolutamente nessuno – salvo barricarsi in casa e non rispondere alle telefonate?
Il secondo problema è che a, a forza di rifuggire dai danni comunicativi rifugiandoci nella neutralità, rischiamo di perdere di vista la responsabilità che pesa su di noi in quanto cittadini di uno stato democratico. Siamo chiamati a prendere posizione, e quindi potenzialmente a fare danni. Altrimenti facciamo prima a dire che la parola democrazia non significa nulla.
L’impossibile neutralità
Nella palude delle responsabilità storiche, dei fatti accertati e della fake news di entrambe le parti, ogni osservatore esterno del conflitto ha tentato di valutare la proporzionalità – e quindi la legittimità – delle reciproche risposte in relazione alle reciproche offese. Proprio come fa, d’altronde, il diritto di guerra, con quella sua architettura medievale a base di Sì e di Ma.
Quello che passa per tifo da stadio è il modo - talvolta umorale, non sempre del tutto informato, e cionondimeno legittimo - attraverso cui i cittadini esprimono il proprio posizionamento individuale. Dall’insieme di questi posizionamenti dovrebbe idealmente dipendere il posizionamento geopolitico del paese. Siamo stati sconvolti dalla violenza di Hamas, ma siamo davvero disposti a sostenere la durissima risposta militare di Israele, che appare sproporzionata e contraria a ogni regola del diritto di guerra?
Per questo non è davvero possibile, né davvero giusto, sottrarsi al dibattito sulla tragedia in corso, dal momento che in questa tragedia siamo – anche noi, proprio noi – indirettamente coinvolti, e indirettamente responsabili. Per questo infatti il terrorismo va a colpire anche in Francia o in Belgio, nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica europea: in un certo senso siamo già in guerra, e lo siamo da tempo.
Liberalismo in crisi
Shibli e Bell sono gli sconfitti del fronte interno globale: quelli che hanno abbracciato il blocco geopolitico “sbagliato”. Parlare di vittime collaterali suona fuori luogo, a fronte di un conflitto che miete ogni giorno centinaia di vittime in carne e ossa, nonché collaterali per davvero: innocenti sacrificati sullo scacchiere di un grande gioco tra potenze che ha fatto dell’antica terra di Palestina, come la chiamavano i romani, l’avamposto di una (presunta) guerra di civiltà. A casa nostra, chi si schiera dalla parte sbagliata rischia al massimo un danno professionale. Ma in una democrazia liberale, non è una cosa da nulla.
Sarà difficile, negli anni di crisi che verranno, mantenere intatto l’edificio del liberalismo per come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. La proliferazione dei rischi comunicativi sta mettendo alla prova la libertà d’espressione proprio come la proliferazione dei rischi sanitari ha temporaneamente dissolto, nel 2020, la libertà di circolazione.
La minaccia terroristica si ripercuote sul rispetto dei diritti umani. La crisi ecologica, da parte sua, implica una riduzione della libertà di consumare. Per non parlare dei dibattiti sugli effetti perversi della libertà sessuale in un contesto di diseguaglianze di genere. Queste crisi tanto diverse sembrano essere in realtà i sintomi di una sola e unica crisi della modernità. È la crisi di un organismo condannato a espandersi continuamente per non morire, ma che ovunque incontra limiti, frontiere, nemici armati fino ai denti.
Il problema è che siamo stati addestrati per vivere in un mondo che non esiste più. La nostra quotidianità è ancora ben lontana da assomigliare a quella di israeliani e gazesi. Poco a poco, però, suonano sempre meno paradossali le parole cantate dai Talking Heads in Life during wartime: «This ain’t no party, this ain’t no disco/ This ain’t no fooling around/ No time for dancing, or lovey-dovey/ I ain’t got time for that now».
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