Guadalupe Nettel ha scritto romanzi e racconti, con La figlia unica, La nuova frontiera, 2020, è stata finalista all’International Booker Prize, a settembre di quest’anno in Italia ha pubblicato la sua nuova raccolta La vita altrove, ancora con La nuova frontiera. Segreti che divampano dal nulla ed esistenze stanche, alberi che muoiono portando giù con loro intere famiglie e lockdown privi di una fine: i racconti di Nettel scavano con precisione lì dove si nasconde il più recondito dei dolori, portando alla luce materia umana universale.

Nei suoi racconti tutto capita in modo casuale, e i protagonisti devono poi reagire a quel che è accaduto.
In esergo alla raccolta c’è una frase di Anaïs Nin a cui sono molto affezionata: «Non vediamo le cose come sono, ma come siamo». La vita è la prospettiva che ognuno ne ha, dipende tutto da come reagiamo a essa. L’esistenza ci modifica, e noi reagiamo.

Gli eventi che l’hanno modificata di più?
Di certo, l’esser nata con la cataratta che ho all’occhio sinistro. Mi ha segnata, e già da bambina: ha modificato me stessa e il rapporto con gli altri.

Cos’altro l’ha modificata?
L’esser cresciuta in un quartiere molto povero abitato da ragazzini orfani, con i genitori in carcere o che erano degli esiliati politici. E poi gli amori, è chiaro, quelli felici e quelli infelici. E la maternità, la maternità mi ha modificata più di ogni altra cosa.

Secondo lei quindi ognuno di noi ha un’indole o cambiamo troppo spesso perché si possa parlare di una natura?
Credo nell’esistenza di un temperamento, di una personalità che si forma nella prima infanzia – anche se, a volte, mi chiedo se certe componenti non vengano al mondo con noi. Al tempo stesso però credo che ognuno nel corso della vita cambi, sì: abbiamo un’indole, forse già alla nascita, che viene riprogrammata costantemente seguendo gli accidenti della vita.

Cambiare è semplice, secondo lei?
Certamente è naturale, ma non è sempre semplice.

È necessario?
È utile: cambiare spesso ci serve a incastrarci meglio nel mondo che abbiamo attorno. Tante persone che conosco sono cambiate per capire ed essere capite.

I personaggi di La vita altrove abitano delle esistenze che non li soddisfano e che vorrebbero poter scambiare con quella di altri – amici, o conoscenti. Da cosa nasce questa insoddisfazione?
Sa, temo sia parte della natura umana: desiderare sempre ciò che non abbiamo e che hanno le persone accanto a noi e sentirci incompleti. Ha presente il mito di Platone? «Un tempo gli uomini erano perfetti, non mancavano di nulla, ma Zeus, invidioso, li spaccò in due: da allora ognuno è alla continua ricerca della propria metà». Non facciamo altro che cercare la nostra parte complementare.

Esiste?
Io questo non posso saperlo, ma sono certa che l’insoddisfazione che abitiamo sia fisiologica, propria dell’uomo. E credo, tra l’altro, che il capitalismo faccia un utilizzo massiccio di questo sentimento.

Cosa intende?
Siamo bombardati da pubblicità che tentano di vendere quell’esperienza, quel prodotto promettendo di colmarlo, il vuoto che abbiamo dentro, e noi, che pur di provarci saremmo capaci di qualsiasi cosa, ci affidiamo al consumismo.

Lei si sente mai soddisfatta?
Sì: quando vivo nel momento. Quando riesco a gustarmi quel che sto facendo, quel che sto facendo adesso, senza sentire un dolore del passato, un’ansia del futuro.

Le bugie e le omissioni e i silenzi: nelle sue storie sono fondamentali. Quel che i suoi protagonisti si mentono è più importante di quel che si dicono.
Ci sono alcune parti di noi stessi che non riusciamo a dire, persino alle persone vicine a noi. Sono incomunicabili, inammissibili, e sono parti imprescindibili di chi siamo.

Perché sono inammissibili? Qual è la radice di questa incomunicabilità?
Sono pezzi di noi di cui ci vergogniamo e per cui temiamo d’essere giudicati. A volte, può pure capitare che le teniamo nascoste per proteggere chi amiamo.

Lei cosa non riesce a dire?
Oh, tantissime cose! Per questo scrivo: per non parlare.

Se lo ricorda, il primo segreto della sua infanzia?
No, però non ero brava a mantenere i segreti e finiva che le amichette non me li raccontavano: forse è per questo che non riesco a rintracciarlo.

Nel primo racconto di La vita altrove, una giovane donna scopre un antico segreto di famiglia e tutto cambia. I silenzi delle famiglie hanno effetto su di noi?
Certo, assolutamente.

Un segreto appartenente alla sua famiglia che ha scoperto da adulta?
Diversi, in realtà. Uno in particolare, ne parlo in Il corpo in cui sono nata. Per più di un anno, quand’ero bambina, non seppi dove si trovasse mio padre: era sparito dal giorno alla notte. Più e più volte lo chiesi a mia madre, ma lei ogni volta mi rispondeva di non indagare, di lasciar stare e di non impicciarsi nelle faccende degli adulti. Dopo un anno, scoprii che era in prigione.

Come lo venne a sapere?
Nel 1985 ci fu un terremoto. Mia madre, quando finì, pigliò immediatamente il telefono e chiamò il carcere, per sapere se mio padre stesse bene, fosse vivo. Io corsi all’altro telefono e origliai - lo facevo spesso.

Come si sentì?
Confusa, arrabbiata: ero una bambina, in fondo.

Parliamo degli animali, ora: nei suoi romanzi e racconti tornano spesso.
Con i loro occhi riesco a vedere e a raccontare un mondo diverso. Soprattutto, poi, attraverso gli animali posso tornare a un livello zero dell’esistenza: siamo animali in cattività, noi umani, costretti a sopprimere istinti e desideri, spesso, a sacrificarli sull’altare delle relazioni, della società.

Se fosse un animale, lei cosa sarebbe?
Mia madre diceva sempre fossi uno scarafaggio (ride, ndr). Potessi scegliere, però, vorrei essere un uccello: sono così liberi!

Il titolo originale della raccolta è Los divagantes. Chi sono i divagantes?
Non c’è una parola che possa tradurlo così come vorrei, così come lo intendo, ma, in fondo, sono le persone che vagano - sia con il corpo, e sia con la mente. Sono degli erranti, dei vagabondi che sentono di avere una meta che però non sono capaci di rintracciare.

Lei si sente così, una divagantes?
Mi ci sono sempre sentita, ma oggi mi sento soprattutto invecchiare.

In uno dei suoi racconti, la popolazione mondiale è ancora in lockdown. E sembrerebbe essere così in eterno; sono tutti chiusi in casa, per sempre: il virus non è stato sconfitto. Perché ha voluto raccontare una sottrazione della libertà tanto feroce?
Perché sento che le nostre libertà sono in pericolo. La pandemia è soltanto un escamotage narrativo, volevo raccontare la privazione della libertà in maniera più ampia. Attraverso la tecnologia, soprattutto i social network, molti paesi tengono sotto controllo i propri cittadini, li sorvegliano, li spiano.

Parli di una cosa a cena con un’amica e dopo qualche ora su Instagram spunta la pubblicità di quel prodotto. È assurdo, per me: siamo costantemente vigilati. E poi quello che sta succedendo in tanti paesi è preoccupante: gli Stati Uniti di Trump e il Brasile di Bolsonaro e l’Argentina che potrebbe presto eleggere come nuovo presidente Javier Milei a me spaventano molto.

Perché non ci ribelliamo a questa forma di controllo?
Conosce il principio della rana bollita di Noam Chomsky? Prenda una pentola piena d’acqua fredda e ci metta dentro una rana, poi accenda un fuoco basso, lì sotto, e faccia riscaldare l’acqua fino a portarla a ebollizione ma lentamente. La rana continuerà a nuotare tranquilla, stancandosi sempre di più senza però mai ribellarsi davvero o tentare la fuga, fino a morire.

A proposito di quello che sta succedendo nel mondo: lei ha citato Trump, Bolsonaro e Milei, io metto nel novero il polacco Morawiecki, l’ungherese Orbán e altri. Sembra ci sia un tentativo di limitare alcune libertà, penso, ad esempio, a quelle della comunità lgbtq+ che in Italia con Giorgia Meloni ha fatto dei passi indietro o all’aborto. È preoccupata?
Assolutamente sì. I diritti ottenuti ci possono venir sottratti nel giro di poco e dobbiamo seguitare a proteggerli ogni giorno: è un nostro dovere. Sono molto preoccupata, sì: penso che dovremmo lottare tutti, assieme. Stanno capitando cose inquietanti, e dovremmo aprire gli occhi prima che sia troppo tardi.

Ultima domanda: la faccio a tutti, questa. Immagini di avere ottant’anni, che sia una domenica mattina: cosa sta facendo, dov’è e con chi è?
Sono in casa mia e sto scrivendo e bevendo un caffè. Tra poco andrò con uno dei miei figli al mercato, compreremo della verdura e cucineremo assieme per il pranzo, quindi mangeremo assieme, ridendo e chiacchierando.


La vita altrove (La Nuova Frontiera 2023, pp. 192, euro 16,50) è una raccolta di racconti di Guadalupe Nettel

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