Se vogliamo fare i conti con i loro problemi, che in fondo sono i nostri, dobbiamo forse ammettere che la nostra società e la nostra scuola mancano di molte delle opportunità che rendono possibile crescere in maniera equilibrata
Gli episodi di violenza che si sono verificati a fine agosto tra Palermo, Caivano e Napoli hanno creato un terremoto mediatico sulle “condizioni dei giovani”. La narrazione del governo è che il perimetro della violenza si stia allargando: i giovani entrano sempre prima nel sistema della criminalità, “deviano” dalla norma. Ecco la genesi del “decreto legge Caivano”, dove si parla di «maggiore pericolosità e lesività acquisite nei tempi recenti dalla criminalità minorile». E se i giovani sono aggressivi, nullafacenti, improduttivi è necessario corrispondergli provvedimenti adeguati: il daspo urbano e il foglio di via come previsti dal decreto.
Inoltre, con l’intento di contrastare il «disagio giovanile», si assegna un ruolo privilegiato alla scuola, in una logica «sanzionatoria ed altresì dissuasiva». Il governo dice di voler combattere l’abbandono scolastico, visto come «brodo di coltura per la criminalità»; vorrebbe allora prolungare la presenza a scuola; ma cosa può fare la permanenza a scuola per studenti con questo profilo?
Punto di arrivo
Da tempo la sociologia ci dice che la dispersione scolastica non andrebbe vista come punto di partenza dei problemi ma piuttosto come il punto di arrivo: lo sa bene chi a scuola ci mette piede. Non è che se si lascia la scuola arrivano i problemi, è che se si lascia la scuola i problemi ci sono già (nella vita personale del ragazzo, nella sua esperienza scolastica). Non basta intimare a lui/lei e alla famiglia di andare a scuola comunque.
Questi ragazzi lasciano la scuola perché? In genere sono demotivati, vivono in zone depresse dove il senso di appartenenza è rarefatto. E quando esiste, è fondato su logiche di sopraffazione: l’aggregazione è violenta. O si aderisce, o se ne resta ai margini. Sono contesti nei quali non c’è mai stata nessuna forma di ascensore sociale, dove si vivono giornate fatte di relazioni affettive brutali.
Come insegnanti ci chiediamo su che basi nell’incontro con il ragazzino considerato “deviante”, potremmo mostrargli che ci sono tante possibilità ed è solo una questione di volontà coglierle o meno. C’è veramente qualcuno che fa questo mestiere, che vive e lavora a stretto contatto con questi ragazzi, che crede che sia una questione di volontà? Che là fuori c’è per questi studenti un mondo ricco di occasioni e opportunità? Molti ragazzi soffrono perché hanno scarsi vantaggi dalla nostra prosperità e dalla nostra “civiltà”.
E allora: c’è un problema nella scuola? Perché nel sentir dire che «è un problema di educazione», sembra che la soluzione sia mostrare al ragazzo che se non sceglie di comportarsi bene alla fine è colpa sua. Ma in un territorio deprivato, nell’assenza di relazioni di senso, pochissime prospettive di emancipazione, quanta realtà ha questo discorso?
Nella scuola di oggi il discorso dominante e le pratiche con studenti sono ancora tutte disciplinari: la solita vecchia educazione degli oppressi che tenta di pacificare i riottosi, con metodi coercitivi o persuasivi. Perlopiù bastone e poca carota: non si fa, non si deve, «se fai questo… allora…» e via con le minacce e le pene, in un crescendo: ti metto la nota, ti sospendo, ti boccio… ti do il foglio di via, il daspo e persino il carcere. Che poi è il destino che hanno avuto molti dei loro genitori; la spirale non si interrompe mai.
Mancanza di opportunità
Se vogliamo fare i conti con i loro problemi, che in fondo sono i nostri, dobbiamo forse ammettere che la nostra società e la nostra scuola mancano di molte delle opportunità che rendono possibile crescere in maniera equilibrata.
Questi adolescenti di cui nessuno si occupa davvero, vivono una solitudine spaventosa e non trovano altro modo per essere significativi se non nel danneggiare l’altro: hanno un corpo e lo usano come viene, in assenza di migliori universi di significato. A cosa li vogliamo socializzare questi ragazzini? A quale società dominante e cultura disponibile? Il nostro problema non è pacificare bande di ragazzini alienati facendogli ingoiare o rimuovere la loro alienazione, ma trasformare le ragioni strutturali che producono questa alienazione.
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