Gestire la pandemia significa gestire con efficacia, insieme alle misure di sicurezza sanitaria da prendersi, fino al lockdown quando è il caso, anche la comunicazione di queste misure. C’è bisogno cioè di una chiarezza univoca dei dati epidemiologici e delle misure di contenimento della pandemia, ma anche della spiegazione chiara e intuitiva della loro inderogabile necessità. Tanto più quando queste misure impattano sulla libertà personale e sulle attività economiche. È ormai un mantra sentire dai riottosi al dover star “chiusi”, al non andare in giro per bar palestre ristoranti, teatri, e quant’altro, o anche a scuola (cosa che si deve e si può fare anche a distanza), che non ci sono “dati” che indichino come e quanto queste attività contribuiscano al contagio e quindi che giustifichino la loro chiusura; anzi che non è dimostrato nessun caso – o pochissimi – di contagio riferibile a palestre ristoranti teatri o quella o questa attività al chiuso. L’argomento è assolutamente fallace, e per certi aspetti puerile. Perché è del tutto ovvio che in attività al chiuso sottoposte alle procedure, osservate, di sicurezza, in teoria nessuno entra ed esce “contagiato”, se l’evidenza del contagio è affidata a qualche sintomo.
Come potrebbe essere altrimenti se mi misuro la febbre all’ingresso e semmai anche all’uscita, per verificare se mi è salita nelle due ore della cena, del film o nell’ora di palestra? Solo se avessimo all’ingresso un tampone a risultato immediato potremmo essere certi che nessun asintomatico entra in quella o questa attività al chiuso contribuendo al contagio dell’ambiente dei locali. Accettare questa argomentazione per decidere se chiudere o meno un’attività è del tutto fuorviante.
L’esito di questo sgangherato argomentare da parte di questo e quello interessato a tener aperta la sua attività e alla pseudopolitica che lo cavalca, è che si arriva alla stupida “scoperta” che il grosso del contagio “avviene” a casa. Ma guarda un po’. Meglio sarebbe dire che si manifesta in casa, dopo che a casa si è tornati dal pieno quotidiano di interazione sociale in ambienti chiusi e nel trasporto pubblico. E se l’argomento avesse un senso, prevenzione e contenimento del contagio che avviene nelle “case”, dovrebbe voler dire chiudere tutti in casa in una quarantena generale, così come è accaduto nel lockdown dei primi mesi dell’anno. E lì arriveremo se si continuerà a fingere di non capire che il contagio viaggia sull’interazione sociale; interazione che quindi deve essere ridotta alla stretta necessità di non bloccare le attività economiche e produttive indispensabili a non far collassare il paese. Lo si vuol capire o no che in un’economia di guerra – perché questo rischiamo e in parte già vi siamo – tra le attività essenziali non ricorrono purtroppo quelle legate al “tempo libero”, che ha tutta una sua economia e una sua rilevanza sociale ed esistenziale, ma non appartiene al tempo della necessità che è studio e lavoro. E anche questi devono essere svolti in modo tale da consentire che il sistema-paese non collassi e possa tornare, finita la necessità del contenimento, al “tempo libero”. Per sei mesi si può fare.
Le condizioni necessarie
Gli anziani ricordano bene che di tempo libero e di mezzi per viverlo ce n’era ben poco ai loro tempi. E non è che “non si poteva vivere”, si viveva alle condizioni date di necessità. Si aiuti, dunque, finanziariamente chi dall’economia del “tempo libero” trae i suoi mezzi di sussistenza, ma tutti gli altri per carità di Dio stiano zitti e facciano il loro dovere per il vostro stesso interesse e quello dei vostri figli.
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