The Old Oak, in sala dal 16 novembre con Lucky Red, ventisettesimo film del regista britannico, è parente strettissimo della serie per Netflix Questo mondo non mi renderà cattivo. Sono storie gemelle
«È vero, è lo stesso tema, ma lui lo svolge in modo meraviglioso: io a questi livelli di poesia non arriverò mai». Così mi dice Zerocalcare, che ha appena visto The Old Oak, in sala dal 16 novembre con Lucky Red, scoprendo (come tutti scopriranno) che il ventisettesimo film di Ken Koach è parente strettissimo della sua serie per Netflix, Questo mondo non mi renderà cattivo.
Sono storie gemelle, raccontate con la stessa anima politica, la stessa passione e la stessa sensibilità, per quanto Michele Rech minimizzi. L’ultimo e il più combattivo dei trotzkisti britannici la serie del suo twin italiano (quarantasette anni di distanza, Ken ne ha 87, Zerocalcare va per i 40, ma è una bazzecola, anche se Loach dice che «gli invidia la giovinezza») non l’ha ancora vista.
«Non vedo l’ora – sostiene – non conoscevo prima Zerocalcare ma è una gran bella persona. Tutte le persone che stimo mi dicono un gran bene di lui. Abbiamo parlato a lungo, e anche riso. Abbiamo trovato parecchie cose su cui siamo d’accordo».
Non sono una mosca, alle chiacchiere private non c’ero, ma guarda caso entrambi si trovano al centro dei medesimi attacchi (più media e politici, all’arrembaggio, che i social) per via della causa palestinese, loro ulteriore terreno di affinità.
Il regista si è attirato i fulmini di casa nostra sostenendo pubblicamente che Gaza è stata trasformata in una prigione e che ai palestinesi è stata rubata la terra. Per Zerocalcare rinvio alla diserzione, ampiamente e sensatamente motivata, dal Lucca Comics Festival, e alla mirabolante ricostruzione di tentennamenti e scelta finale descritti nella sua striscia per Internazionale.
Il cortocircuito artistico è più sorprendente. E ha fatto capolino nell’incontro dei due, dopo la proiezione del film, al The Space Cinema Parco de Medici di Roma, piena periferia Eur, con il regista reduce, come è suo militante costume, dalla visita alle 150 famiglie multietniche occupanti di viale Manzoni, nell’edificio sotto minaccia di sgombero dove si è insediato il centro culturale Spin Time.
Poveri contro poveri
La contea di Durham, nord est britannico quasi ai confini con la Scozia, non è Rebibbia, ma le due parabole collimano. La vecchia quercia di Loach è il nome dell’ultimo pub aperto nell’ex paesino minerario messo in ginocchio dalla disoccupazione. Ma è anche il simbolo dell’ultimo sciopero a oltranza dei minatori, nel 1984 di Margaret Thatcher, e di una solidarietà che può rinascere sopra le guerre tra poveri che la logica della globalizzazione scatena.
Nella stessa regione in cui Loach aveva girato Io, Daniel Blake (Palma d’oro a Cannes nel 2016), il governo britannico insedia una comunità di rifugiati siriani. La rabbiosa accoglienza dei locali è cronaca vera del 2016. Sulla vicenda il regista aveva già girato un documentario. La guerra dei poveri contro i poveri è sempre la stessa. Tra l’altro l’amministrazione ha comprato gli alloggi per gli “intrusi” per quattro soldi sulle aste online, e di riflesso deprezza le case dei residenti. I ragazzini del quartiere vedono pacchi di vestiti offerti a questa gente priva di tutto, perfino una bicicletta: «La vorremmo anche noi una bicicletta!». E man mano che la storia si complica, scopri che la molla del racconto procede in parallelo con quella disegnata da Zerocalcare, esposta alle stesse strumentalizzazioni populiste di destra, finché non scatta la solidarietà.
Nell’incontro con il suo simile, Michele Rech aveva il ruolo dell’interrogante. Ma era come se le domande le ponesse a un altro sé stesso. «Quando deve scegliere cosa raccontare si innamora di una storia e poi sviluppa il tema oppure ha in agenda dei temi da affrontare e poi li condensa?» La procedura descritta da Ken Loach somiglia in sintesi come una goccia d’acqua alla sua: «Partire da una vicenda vera, raccontare una storia semplice con tanti personaggi, facendo parlare chi l’ha vissuta e ascoltandolo bene».
Il peso della responsabilità
Ma c’è un’altra domanda che per Zerocalcare conta ancora di più: «Lei è un artista che è diventato per tanti un punto di riferimento politico. Sente il peso, quando lavora, di dover realizzare quello che da lei ci si aspetta?»
All’età di Loach, e col suo bagaglio alle spalle, dubbi e tormenti contano meno della sua benedetta, cocciuta lotta di resistenza. «Era una domanda che dovevo fargli, perché cerco risposte – mi dirà più tardi questo fumettista superstar balzato per vero merito (e suo malgrado) a un ruolo guru, di portavoce carismatico – per sapere come si esce da questa situazione. Solo che lui rispetto a me ha questo problema moltiplicato per diecimila».
È ben vero che qui in Italia Ken il rosso, che a chiamarlo semplicemente marxista precisa «Quarta internazionale, please», è più amato, seguito e acclamato di qualsiasi nostro leaderino della sinistra. Ma è anche vero che lui può uscire in pace dalla sala, mentre Zerocalcare occorre blindarlo contro gli assalti di folla. C’è poco da minimizzare: è un dato di fatto. Lo scomodo peso della responsabilità dovrà continuare a portarselo addosso, e senza ricette salvifiche.
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