La vicenda del dipinto di Caravaggio che il critico d’arte, neopresidente del Mart di Rovereto, ha chiesto e ottenuto in prestito per la mostra Caravaggio. Il contemporaneo, dialogo con Burri e Pasolini. Le precisazioni della storica dell’arte Silvia Mazza, la controreplica di Demetrio Paparoni e la nuova controreplica di Silvia Mazza
- Lo scorso 15 ottobre abbiamo pubblicato l'articolo Il «metodo Sgarbi»: usare la politica per piegare l’arte ai suoi desideri che si occupava della vicenda legata al trasferimento del dipinto di Caravaggio da Siracusa al Mart di Rovereto
- Per Silvia Mazza, giornalista e storica dell’arte, l’articolo contiene «false dichiarazioni gravemente lesive della reputazione professionale di chi, come la sottoscritta, ha lavorato al progetto che il Mart ha dedicato al Caravaggio siracusano»
- L’autore dell’articolo, il critico e saggista Demetrio Paparoni, replica alle precisazioni di Mazza: «Lei mi muove diversi rilievi, tutti contestabili e smentiti dai fatti», ma la controreplica di Silvia Mazza non tarda ad arrivare
Gentile direttore Stefano Feltri,
chiedo rettifica, a norma della legge 416/1981, alle false dichiarazioni consegnate da Demetrio Paparoni all’articolo “Il metodo Sgarbi: usare la politica per piegare l’arte ai suoi desideri”, e per tanto gravemente lesive della reputazione professionale di chi, come la sottoscritta, ha lavorato al progetto che il Mart di Rovereto ha dedicato al Caravaggio siracusano. Un conto è la libera espressione di un giudizio critico, tutt’altra quella di costruire tale giudizio ignorando i fatti e insinuando, con evidente intento diffamatorio, che alla base della richiesta di prestito dell’opera ci sia stato addirittura “un piano ben architettato” per ottenerlo.
Il fatto è che a Paparoni mancano proprio le premesse da cui muove il progetto voluto dal presidente del Mart, Vittorio Sgarbi. Ignora, per esempio, che quello che lui stesso riconosce essere «uno dei dipinti più importanti del patrimonio culturale italiano» sia stato lasciato addossato, per undici lunghi anni, dal 2009, alla pala d’altare del polidoresco Deodato Guinaccia, che da allora, occultato totalmente, è stato sottratto alla vista sia dei fedeli che dei visitatori: una scelta che ha dell’incredibile, nemmeno si fosse in un magazzino invece che in una chiesa. Fatto in sé già deprecabile per la totale disattesa delle basilari nozioni sulla valorizzazione e fruizione delle opere d'arte, ma ancor più grave alla luce dei danni che avrebbe potuto innescare sotto il profilo conservativo, sulla scorta dei dati oggettivi forniti dal Centro per il restauro di Palermo (Crpr), relativi alle indagini ambientali condotte nella chiesa tra il 2014 e il 2015, che avevano rivelato che la temperatura e l'umidità relativa avevano superato il limite ottimale (40-55 per cento) con percentuali comprese tra il 70 e il 100 per cento. Non solo. Nel 2006 lo stesso Centro di Palermo aveva condotto una campagna diagnostica sul dipinto, che aveva evidenziato l’alterazione delle vernici applicate sulla superficie pittorica e segnalata una “macchia sospetta” sul retro, da allora non più ispezionato, spia di un possibile attacco biologico. Lo aveva spiegato il restauratore Franco Fazzio, che allora aveva collaborato col Crpr, in occasione di una conferenza tenutasi il 18 maggio 2017 alla galleria regionale di palazzo Bellomo, a Siracusa, che avevo promosso insieme all’allora direttore Lorenzo Guzzardi per rendere pubblici per la prima volta quei dati (dell’argomento mi ero occupata in diversi articoli su Il Giornale dell’Arte).
Spenti i riflettori, restò senza risposta la necessità di verificare le condizioni conservative dell’opera. È solo adesso, a distanza di tre anni da quella conferenza, che di tali operazioni è stato incaricato dalla soprintendenza di Siracusa l’Icr proprio nell’ambito del progetto Mart: il Fec, proprietario dell’opera, per autorizzare il prestito si è dotato del parere positivo dell’organo di tutela, sulla base della relazione tecnica presentata dall’Icr (quella che Paparoni chiama “perizia”, nemmeno si fosse in tribunale). È solo grazie alla richiesta di prestito dell’opera nell’ambito del progetto Mart che oggi conosciamo su basi scientifiche le condizioni conservative reali del dipinto, valutate “discrete” dall’Icr (nessuna verniciatura alterata o attacchi di biodeteriogeni in atto); mentre sono proprio i detrattori siracusani che hanno parlato di un'opera in «precarie condizioni» e fatto credere che sarebbe stata trasportata a Rovereto in «casse di limoni» (sic!) su un «tir sprovvisto di climatizzazione» (sic!).
Il progetto “ideato” da Sgarbi, dunque, non si risolve nella “sola” mostra, ma è rivolto, appunto, anche al miglioramento delle condizioni conservative ed espositive dell'opera d’arte, che il Mart si è impegnato a co-finanziare. I beni del Fec hanno bisogno di manutenzione ed è proprio perché tale manutenzione necessiterebbe del triplo dei fondi a disposizione, come dichiarato dal suo presidente Eike Schmidt, che co-finanziamenti come quelli proposti dal Mart sono auspicati e salutati favorevolmente.
Non può che suscitare imbarazzo, poi, leggere che sarebbero state le polemiche siracusane a garantire la restituzione del dipinto alla chiesa originaria, quando è, invece, notoriamente il fine del progetto Mart, che lo ha reso possibile, coprendo i costi del sistema di antifurto e videosorveglianza dell’edificio sacro.
Non si dimentichi che nel 1970 si era verificato un tentativo di furto del dipinto e che appena l’anno prima era stato sottratto un altro Caravaggio in Sicilia: nella Palermo irredenta e mafiosa del 1969, la notte tra il 17 e il 18 ottobre, la Natività coi santi Francesco e Lorenzo dell’Oratorio di San Lorenzo svanì nel nulla.
Ma Paparoni non scrive nulla di tutto questo, preferendo parlare superficialmente dei fondi, e fare confusione scrivendo che sarebbero «gli amministratori siciliani» i destinatari degli impegni finanziari del Mart. Probabilmente, dimenticandosi che lui stesso riconosce che il proprietario giuridico dell’opera è il Fec, avrà dato credito ai detrattori che alla stampa hanno fatto credere che l’opera fosse di proprietà della regione siciliana.
E, dunque, non sa che fin dalla richiesta di prestito il museo ha previsto un loan fee al Fec, un contributo di 100mila euro, portato in fase di contratto finale a 130mila, destinato a tutto quanto necessario ai fini degli interventi ritenuti opportuni per la tutela e la valorizzazione dell’opera sotto il coordinamento degli organi competenti, ossia la soprintendenza territoriale responsabile, quella di Siracusa. Le altre somme impegnate, dei 350mila euro complessivi, nelle ipotesi iniziali dovevano servire per il climabox (la “teca” di Paparoni) previsto quindici anni fa, di nuovo, dal Crpr di Palermo e preso ancora in considerazione dai precedenti corsi soprintendentizi, ma scartata dall’Icr perché, se non si fosse in grado di garantire una costante e adeguata manutenzione (e non è solo un malcostume siciliano quello di non dar adeguato valore alle misure di prevenzione), sarebbe addirittura una soluzione dannosa per l’opera d’arte. Presumere di sapere quali sarebbero stati gli interventi necessari a cui si è arrivati alla fine non sarebbe stato altro che una prevaricazione nei confronti dell’organo preposto alla tutela.
Climabox e condizioni conservative del dipinto tali da necessitare una verifica da parte del massimo istituto italiano in materia di conservazione del patrimonio, non sono un'invenzione di Sgarbi, ma argomenti da ricondurre alle campagne diagnostiche condotte nel 2006 e poi nel 2013-2014 dal Centro per il restauro di Palermo.
Altra notizia falsa è quella che «il cda presieduto da Sgarbi non avrebbe riconfermato il direttore uscente». Io, che ho lavorato con Maraniello, so che è stata una sua libera decisione quella di non proseguire con un secondo mandato al Mart allo scadere del contratto, e so come Sgarbi abbia cercato di trattenerlo.
Il curatore Paparoni si scandalizza perché manca un curatore del catalogo. Punti di vista: recensendo l’anno scorso la mostra “Castrum Superius” a palazzo dei Normanni a Palermo apprezzavo proprio che l’assenza di un curatore fosse l’interessante invenzione di una più “democratica” curatela collegiale, fatta da tutti gli autori dei saggi. E a proposito di saggi, se invece che fermarsi alle prime pagine si fosse spinto appena oltre, si sarebbe accorto che un contributo agli studi storico-artistici lo trovava proprio nel mio di saggio, dove, con grande rispetto per le “autorità” che mi hanno preceduto (e tra queste c'è il padre della storia dell'arte Roberto Longhi, ma anche i maggiori storici dell'arte siciliani), confuto vistosi abbagli presi in passato dalla critica e propongo una nuova lettura del capolavoro in chiave spirituale, sulla base anche di un testo del '600 finora ignorato dagli studi.
Se, infine, di “metodo Sgarbi” vogliamo parlare, è quello di dare voce alle voci indipendenti, e trasformarle in progetti, come quella di una giornalista che ha firmato alcune tra le più importanti inchieste sui “mali culturali” siciliani e che Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (11.12. 2018) ha riconosciuto come «giornalista specializzata sui temi culturali», commentando la vittoria legale contro il tentativo intimidatorio allora mossole allo scopo di screditarla, da una soprintendente, per aver denunciato fatti gravi proprio contro il patrimonio siracusano.
Silvia Mazza, storica dell'arte e giornalista, responsabile del “coordinamento tecnico delle procedure inerenti il prestito e l’intervento conservativo dell’opera”.
Risponde Demetrio Paparoni:
Non c’è nulla di falso in quello che ho scritto, come mi appresto a dimostrare confutando punto per punto quel che scrive nella sua lettera. Le polemiche sollevate a Siracusa hanno attivato una vigilanza e, considerato che ci sono punti ancora da chiarire, non sono state inutili, tant’è che è stato presentato un esposto alla procura della Repubblica di Siracusa e una denuncia alla procura della Repubblica di Roma per violazione delle norme che regolano il procedimento di accesso agli atti da parte del direttore dell’Istituto centrale del restauro. In attesa che le indagini facciano il loro corso, è auspicabile che le polemiche non si spengano. La ringrazio dunque della sua lettera, che mi permette di chiarire aspetti della questione che per limiti di spazio non avevo potuto trattare.
Lei mi muove diversi rilievi, tutti contestabili e smentiti dai fatti.
Travisando le mie parole lei afferma che «Paparoni si scandalizza perché manca un curatore del catalogo». Io non l’ho scritto del catalogo, ma della mostra. Mi sono soffermato sul testo di Sgarbi perché di fatto si presenta come il curatore occulto della mostra. Ma adesso che me lo fa notare, anche il fatto che non sia indicato il curatore del catalogo è ben strano. Sia in copertina che nel frontespizio si legge solamente «da un’idea di Vittorio Sgarbi». Anche se si trattasse di una curatela collegiale, come lei sostiene, la cosa andrebbe evidenziata e tutti i curatori nominati. Non vedo perché chi ha svolto questo compito non debba avere il giusto riconoscimento.
Mi rimprovera inoltre di non aver letto i testi in catalogo. Si sbaglia. Ho letto tutti i testi, sia quelli noiosi e pretenziosi, sia quelli seri e interessanti. In particolare ho trovato interessante quello di Keith Sciberras.
Lei certamente avrà buoni motivi per essere grata a Sgarbi, ma se c’è una persona che usa metodi intimidatori è proprio lui, facendo leva sul fatto che la maggior parte delle persone non ama essere trascinata in risse verbali in cui i fatti vengono occultati dalle urla a tutto vantaggio delle mistificazioni.
Lei dice che Sgarbi ha fatto di tutto per trattenere Gianfranco Maraniello, il direttore artistico uscente. Dalle parole che gli ha riservato durante la conferenza stampa di presentazione della mostra, non si direbbe. Maraniello non sarebbe potuto rimanere per una questione di dignità, perché nessun direttore artistico che si rispetti potrebbe adattarsi al ruolo di mero esecutore della volontà altrui. Quando Sgarbi dice che, essendo lui «il creativo», «un direttore artistico al Mart non sarebbe servito [...] qualsiasi direttore scelto da un concorso verrebbe ‘massacrato’ da me sul piano del carisma», lo conferma. Approfitto per plaudire al gesto di dignità fatto anche dal direttore pro tempore del Mart, dottor Diego Ferretti, voluto da Sgarbi in sostituzione di Maraniello. Ferretti ha fatto sapere che non intende ricoprire a tempo indeterminato un ruolo non suo, visto che lui è un manager, non un esperto d’arte o un curatore. A questo proposito il quotidiano L'Adige del 13 ottobre riporta la seguente dichiarazione di Sgarbi: «A organizzare le mostre ci penso io, se va via Ferretti assumeremo un altro manager». Non mi pare proprio che questo smentisca quanto ho scritto.
Il motivo per cui ho sostenuto che tutte le promesse fatte da Sgarbi potevano far temere che si trattasse di un piano ben architettato per ottenere il prestito trovano diversi riscontri nella relazione che proprio lei ha stilato per il Mart. Relazione datata 30 dicembre 2019 con protocollo MART-0000023-07/01/2020-A. Nel dare indicazione su come procedere per ottenere il prestito, lei stessa chiariva che la condizione perché sia autorizzato un prestito per mostre è da ricercarsi nelle cattive condizioni del dipinto e del luogo che la ospita. Sgarbi ha ribadito in numerose occasioni, anche in video postati su YouTube, che tanto il Seppellimento di Santa Lucia quanto il luogo che lo ospita versano in cattive condizioni.
Come sostenuto nel mio articolo, le perizie (nel senso di parere di un esperto) smontano il punto di forza della tesi inizialmente sostenuta da Sgarbi, cioè che il dipinto avesse assoluto bisogno di importanti interventi di restauro e di una teca climatizzata e blindata per la sua messa in sicurezza che solo i 350.000 euro stanziati dalla provincia di Trento avrebbero potuto assicurare. In una delle relazioni dell’Istituto centrale per il restauro, datata 24 giugno 2020, il dottor Marco Bartolini scrive: «L’indagine ha evidenziato il buono stato di conservazione del dipinto. L’osservazione visiva di tutte le superfici sia del recto sia del verso del dipinto non ha rilevato la presenza di alterazioni riconducibili a cause biologiche. Anche per le analisi microbiologiche non è stato riscontrato sviluppo di bioeteriogeni». In un’altra relazione, questa del 30 giugno 2020 a firma Roberto Ciabattoni, funzionario incaricato dell’Istituto centrale per il restauro, si legge: «Attualmente il tensionamento del supporto è buono, il telaio è in buone condizioni, e la foderatura ancora pienamente efficiente, si sono tuttavia notate alcune macchie scure sul verso soprattutto nella parte bassa. Ad una analisi visiva si può affermare che sono provocate da un assorbimento maggiore della vernice dove mancano gli strati pittorici. [...] L’adesione degli strati preparatori e del colore al supporto è buona, mentre la superficie è interessata da alcuni ritocchi alterati». Queste relazioni dimostrano che il quadro, tutt’altro che malmesso, non aveva bisogno di un restauro «indifferibile e urgente».
Lei dice che è stato il Mart a rendere possibile il ritorno del dipinto di Caravaggio nella chiesa originaria coprendo i costi di antifurto e videosorveglianza. Lei sta sostenendo che sarebbe bastato coprire i costi di antinfurto e videosorveglianza per far tornare l’opera nel suo sito originario? Se fosse bastato solo questo perché a fronte del prestito Sgarbi ha sempre parlato di 350.000 euro?
Lei scrive: «sono proprio i detrattori siracusani che hanno parlato di un'opera in «precarie condizioni». Non è come lei scrive! È stata lei, sempre nella sua relazione già citata, a pagina 2, a definire l’opera «fragilissima». È chiaro ormai a tutti che la tesi della fragilità dell’opera è stata necessaria per supportare il prestito, che è stato ottenuto insistendo ripetutamente sulla necessità di intervenire con un restauro «indifferibile e urgente». Cosa che, come sì è detto, è stata dimostrata da diverse indagini tecniche.
Ma veniamo all’aspetto più grave della faccenda. Sempre nella sua relazione del 30 dicembre 2019 lei scrive: «Nel mese in corso, ho appreso e riferito al mio referente, dott.ssa Daniela Ferrari, che il 20 novembre scorso il sottosegretario Carlo Sibilia è stato a Siracusa e ha destinato (disposizione del 28 novembre) 100 mila euro nel Bilancio 2020 per il Caravaggio (è da verificare che la misura sia contenuta nella legge approvata il 24 dicembre). E dal momento che la Soprintendenza non aveva fatto menzione con la proprietà della proposta del Mart, ho puntualizzato che il fatto che il Ministero degli Interni fosse disponibile a impegnare delle risorse economiche non significa che se non ci fosse un finanziatore privato o un soggetto istituzionale come il Mart il Fec non accoglierebbe con favore una sponsorizzazione, potendo, evidentemente destinare tali risorse ad altre “emergenze” del patrimonio nelle sue disponibilità». In buona sostanza se ne deduce che lei ha consigliato di far dirottare altrove i 100mila euro destinati dal Ministero per il restauro e la messa in sicurezza del quadro per far subentrare il Mart come sponsor. In sostanza il Mart offre 100mila euro di loan fee al Fec a favore del Caravaggio e a questo punto il Fec dirotta altrove i centomila euro già destinati al Caravaggio. L’effetto del dirottamento di questa cifra è quello di aprire per il Mart la strada al prestito. Perché mai il Fec avrebbe dovuto dirottare altrove i centomila euro stanziati per mettere in sicurezza il Caravaggio di Siracusa, quando questo avrebbe permesso di restaurare il quadro nei locali del museo Bellomo di Siracusa, come peraltro lei aveva prefigurato in un suo precedente progetto presentato tra il febbraio e l’aprile 2018 alla regione Sicilia, nei tre mesi in cui Sgarbi era assessore alla cultura e lei ne era consulente? In quell’occasione lei suggeriva «temporanea musealizzazione presso la Galleria Regionale di Palazzo Bellomo» per consentire il restauro. Cosa l’ha portata a cambiare idea e a sostenere che i 100.000 euro destinati al Caravaggio dal Ministero non fossero più sufficienti?
Tra le tante cose promesse da Sgarbi per ottenere il prestito c’è quella che lei chiama «la teca di Paparoni» precisando che si dovrebbe chiamare Climabox, e dimenticando che è proprio Sgarbi, la persona che le ha fatto avere l’incarico, che l’ha ripetutamente chiamata in quel modo. Alla necessità di questo Climabox (la faccio contenta) Sgarbi e il Mart hanno dato particolare enfasi. Riporto quanto scritto il 26 maggio 2020 da Finestre sull’arte, la testata online con cui lei collabora: «Il ‘pacchetto’ prevede anche il necessario e opportuno restauro dell’opera che sarà interamente finanziato dalla provincia di Trento per un ammontare di 350.000 euro e la fornitura di una teca realizzata dall’azienda Goppion». Dichiara inoltre Sgarbi su Repubblica, Palermo 11 giugno 2020 (leggibile sulla rete, ma di dichiarazioni così ne troverà tantissime): «Rinuncio al prestito e firmo anche io l’appello. Faremo la mostra al Mart con un’altra opera di Caravaggio. Ma adesso mi aspetto che oltre a finanziare il restauro (che attende da 15 anni) e per il quale il Mart di cui sono presidente avrebbe messo 350 mila euro, provvedano, con l’urgenza che le condizioni della tela impongono, alla realizzazione della teca che ripari l’opera dall’umidità del posto in cui si trova adesso, la Chiesa di Santa Lucia alla Badia, che è la principale causa del suo grave deterioramento». Questa è solo una delle tantissime dichiarazioni in cui si parla della necessità della teca, che è in seguito risultata non necessaria, ed è una delle tante dichiarazioni in cui si definisce il dipinto in una condizione di «grave deterioramento».
La dichiarazione appena riportata di Sgarbi è anche una risposta al sindaco di Siracusa e all’assessore alla cultura del comune di Siracusa, Fabio Granata (prima che quest’ultimo cambiasse idea, portandosi sulle posizioni di Sgarbi). A fine maggio i due politici siracusani avevano dichiarato su diverse testate di stampa locale: «Non crediamo sia pensabile e neanche proponibile un prestito solo per la promessa di una teca e di un restauro non meglio specificato. L’identità culturale della Sicilia si difende non con i proclami ma attraendo viaggiatori e non certo prestando le nostre opere più preziose e delicate».
Invece di citare le bizzarre dichiarazioni di chi, come lei rimarca, che ha «fatto credere che sarebbe stata trasportata a Rovereto in “casse di limoni” su un “tir sprovvisto di climatizzazione”», perché non si sofferma sulle posizioni di chi ha affrontato la questione in termini legali e amministrativi?
Nel mio intervento su Domani scrivo dell’auspicabile ritorno del dipinto alla sua sede originale purché ci siano le condizioni di tutela del quadro. Non so da dove abbia dedotto che voglia che il dipinto rimanga addossato al Martirio di Santa Lucia di Deodato Guinaccia, nella chiesa di Santa Lucia alla Badia.
Lei scrive che non ho contezza del fatto che il prestito dipende dal Fec e non dalla Regione siciliana. Sempre nella sua relazione del 30 dicembre lei scrive: «Appare urgente, alla luce di quanto sopra, chiarire il progetto da consegnare al protocollo d’intesa con la Regione Siciliana». Dunque la regione Siciliana c’entra eccome!
Infatti, tra le diverse e-mail ricevute ad articolo pubblicato, un rilievo che mi è stato fatto riguarda la proprietà dell’opera di Caravaggio, che nel mio articolo ho attribuito al Fec, fidandomi di quanto dichiarato da Sgarbi. Trattandosi di una questione da specialisti del settore, mi limito qui a riportare, in coda alla mia risposta, quanto scrive in proposito l’avvocato Salvo Salerno, dirigente regionale esperto in diritto dei beni culturali e presidente onorario del comitato Ortigia Sostenibile: «Qualsivoglia forma di valorizzazione (quindi incluso i prestiti o gli scambi) di un Bene Culturale devozionale come il Seppellimento di Santa Lucia, deve essere preceduta da un Accordo ex artt. 9 e 112 del Codice dei Beni Culturali, stipulato tra Arcidiocesi, Fec, comune e regione. La competenza di Comune e Regione deriva dal fatto che la valorizzazione non la può fare unilateralmente il possessore del Bene Culturale, ma deve obbligatoriamente coinvolgere anche gli Enti custodi, sia sotto il profilo religioso, sia sotto il profilo dell'esponenzialità territoriale. Peraltro il comune è il committente giuridico dell'opera, mentre la regione aveva già stipulato nel 2010 un'Intesa concordataria con la CEI siciliana». Secondo quanto scritto da Salerno «il prestito è illegittimo perché realizzato in assenza di previo Accordo; il Fec ha commesso un abuso nel non aver perseguito il previo Accordo con Arcidiocesi, Comune e Regione; il Comune era competente a stipulare quell'Accordo preventivo ed ha commesso un’illegittimità omissiva a non esigerlo e restare inerte; il Comune ha altresì commesso un abuso, consentendo a un proprio esponente istituzionale, del tutto incompetente ad esprimere la volontà dell'Ente, a conseguire il risultato opposto, cioè quello voluto dalla controparte del prestito, anziché il vero risultato che sarebbe stato legalmente spettante al Comune, ossia la propria legittimazione in un Accordo preventivo; la Regione ha perso un'occasione per agire, nei confronti di Fec, Arcidiocesi e Mart, le clausole di quell'Intesa che aveva siglato nel 2010 con la Cei; la Soprintendenza non avrebbe potuto rilasciare l'autorizzazione, in difetto di quell'Accordo».
Spero di essere stato esaustivo, anche se molto ancora ci sarebbe da dire sulla copia dell’opera di Caravaggio.
Risponde Silvia Mazza:
Gentile direttore Feltri,
dopo mesi di una sterile, infondata ed estenuante polemica consumata sulla stampa locale siracusana, dispiace che un critico come Paparoni si sia lasciato coinvolgere sulla base di informazioni parziali e false, come riconfermo anche dopo la sua controreplica. Quest’ultima, infatti, lungi dal confutare «punto per punto» quanto ho chiarito, è prova di un procedere contraddittorio e diventa spunto per l’introduzione di nuovi elementi (scrive: «mi permette di chiarire aspetti della questione che per limiti di spazio non avevo potuto trattare») che aggravano l’intenzione diffamatoria.
Se nell’articolo del 15 ottobre avevo avvertito le sue dichiarazioni come gravemente lesive della reputazione professionale di chi, come me, ha lavorato al progetto del Mart, nella controreplica apparsa sul sito internet di Domani si palesa in modo esplicito il suo intento calunnioso, rinforzato dai commenti che il critico consegna al suo profilo facebook, dove mi definisce «questa signora, che non avevo mai sentito nominare prima». Diciamo che mi consola il fatto che la prima firma del Corriere della Sera Gian Antonio Stella mi abbia riconosciuta, nell’articolo che ho richiamato nella precedente lettera, “giornalista specializzata sui temi culturali”.
Chiedo anche a Paparoni di chiarire a cosa si riferisce quando allude: «Lei certamente avrà buoni motivi per essere grata a Sgarbi». L’allusione ai fini diffamatori può essere persino un “metodo” peggiore di quelli che lui addebita a Vittorio Sgarbi.
In ogni caso, mi riporto a quanto dichiarato in data 25/11/2019 dal ns. Presidente della Repubblica e cioè: «Sminuire il valore di una donna e non riconoscerne i meriti nella vita pubblica e privata con linguaggi non appropriati e atti di deliberata discriminazione contribuisce ad alimentare il clima di violenza».
Ad ogni buon conto, sono, dunque, costretta a chiederle di nuovo diritto di replica ex l. 416/1981. La mia sì, a differenza di Paparoni, punto per punto.
Paparoni prende atto e nulla ha da obiettare su tutta la prima parte in cui ricostruisco sia le premesse e la storia del “caso Caravaggio”, di cui mi sono occupata su Il Giornale dell’Arte a partire dal 2015, sia i reali contenuti del progetto del Mart, di cui evidentemente era all’oscuro, o, peggio, non ha inteso approfondire, preso com’era, lui che è un «tecnico», dalle «implicazioni politiche» della mostra «su cui è bene soffermarsi», scriveva il 15 ottobre su queste colonne.
Venendo, quindi, ai presunti chiarimenti, non ho affatto travisato le sue parole.
E a conforto di quanto dico cito proprio le sue, di parole: quando scrive che «i cataloghi delle mostra nascono dall’esigenza di affrontare criticamente questioni legate alla teoria dell’arte per lasciare un documento utile agli studiosi. Dilungarsi in un testo che dovrebbe affrontare questioni legate alla teoria dell’arte (…)» non stava parlando proprio del catalogo? Peraltro, proprio il titoletto della colonna è “Il catalogo”: evidentemente anche al redattore è stato impossibile fraintendere che a questo si riferiva. Eppure, ora si contraddice affermando che il virgolettato di cui sopra «io non l’ho scritto del catalogo, ma della mostra».
La contraddizione è in agguato, ci casca pure immediatamente dopo. Paparoni scrive, infatti: «ho trovato interessante quello (il testo, ndc.) di Keith Sciberras». Ma non starà forse dicendo che non era vero quello che scriveva il 15 ottobre e, cioè, che leggendo adesso meglio, lo ha invece trovato «un documento utile agli studiosi», di cui in prima battuta diceva difettare il catalogo?
Parlando di Maraniello, poi, più che «chiarire» (uso sempre il termine che gli preme usare nella sua controreplica) il suo pensiero, sorvola sulla sua falsa affermazione, in quanto priva di riscontro documentale («il cda presieduto da Sgarbi non avrebbe riconfermato il direttore uscente»), più interessato a definire il nuovo direttore del Mart Ferretti un “manager”, quando invece si tratta di un dirigente interno al museo. Una scelta, anche, che ha fatto risparmiare l’Amministrazione, e di questi tempi, non dovendo corrispondere uno stipendio a un esterno. E’ pacifico, invece, che Sgarbi usi il termine per dire che «se va via Ferretti» verrà assunto un direttore-manager.
Paparoni cita, poi, brani della mia relazione, con un taglia e cuci ad hoc che, secondo lui, gli consentirebbe di confermare che il prestito sia il frutto di «un piano ben architettato». Ma non aveva scritto l’altra volta che «il prestito è stato ottenuto ottemperando a tutte le trafile istituzionali e burocratiche»? Spieghi meglio a me e ai lettori quale sarebbe l’accusa che mi sta rivolgendo. Non sarà, forse, che mi sta attribuendo la responsabilità di un qualche illecito? Perché è evidente la sua intenzione diffamatoria? Perché, malgrado nella mia replica (ma è scritto anche in un passaggio della relazione che lui si guarda bene dal citare) avessi chiarito che i dati sulle condizioni conservative del dipinto e quelle ambientali delle due chiese erano state consegnate alle campagne diagnostiche condotte dal Centro per il Restauro di Palermo (CRPR), lascia intendere in modo fraudolento che quelle condizioni siano una invenzione mia e di Sgarbi. Non volendo fare un torto alla sua capacità di comprensione letterale del mio testo, sono costretta ancora a pensare che egli intenda intenzionalmente ignorare, o peggio fraintendere a bella posta, quello che ho già spiegato l’altra volta: l’accertamento delle reali, attuali condizioni del dipinto è stata richiesta dalla Soprintendenza proprio nell’ambito del progetto Mart.
Pongo la questione in maniera più accessibile: nella mia relazione, come prima in tutti i miei articoli giornalistici, intendo dire «questo è ciò che le relazioni tecniche CRPR dicono, vogliamo verificarlo affidandoci ai massimi esperti?». Ma Paparoni lo ha chiaro quando cita le relazioni del dott. Bartolini e del dott. Ciabattoni, dell’ICR, che non sono precedenti a quella richiesta, e che le relazioni che si avevano a disposizione all’avvio del progetto erano solo quelle del CRPR?
Paparoni ricorda che nella mia relazione, ovvero in un documento a uso interno al museo e non rivolto di certo a una platea pubblica, definivo la tela «fragilissima». Quale fosse l’opinione comune sulle condizioni del dipinto lo chieda alle sue fonti che, lanciando una raccolta di firme sulla piattaforma change.org, hanno presentato l’opera come in «precarie condizioni», «fragilissimo dipinto», condizione quest’ultima che poteva essere invece certificata solo su basi scientifiche come appunto fatto dall’ICR. Verificare su basi oggettive: mentre ai promotori di quella fraudolenta raccolta di firme non interessava, questa è stata sempre la mia posizione, dagli articoli giornalistici alla relazione tecnica. E proprio nella relazione chiarivo le ragioni di questa necessità, ricordando pure le difficoltà in cui versa il Centro regionale che, pur coinvolto e chiamato a fornire il proprio di parere, ha dovuto riconoscere di non possedere i mezzi necessari per condurre le nuove indagini diagnostiche, come poi è stato possibile all’ICR.
Il critico ritorna pure, malgrado le mie puntualizzazioni, sulla cifra stanziata di 350mila euro: continua, cioè, a non avere chiaro che si è potuto definire quali interventi fossero necessari solo a seguito di quanto richiesto dalla Soprintendenza. Nel documento di richiesta di prestito dell’opera è evidente che non si avesse nessuna intenzione di prevaricare l’organo preposto alla tutela. Si legge, infatti, che «lo stanziamento di loan fee di 100.000 euro», poi portato a 130.000, è «comprensivo di tutto quanto necessario ai fini degli interventi ritenuti opportuni per la tutela e la valorizzazione dell’opera, sotto il coordinamento degli organi competenti». E’ chiaro? Nessuna prevaricazione, dicevo. Il climabox era stato preso in considerazione da Sgarbi perché delle sua necessità erano convinti in precedenza CRPR e la Soprintendenza.
E vengo ora a quello che secondo Paparoni sarebbe «l’aspetto più grave della faccenda», quando invece è il passaggio più grave della sua diffamazione a me rivolta. Afferma che io avrei addirittura fatto «dirottare altrove i 100mila euro destinati dal Ministero per il restauro e la messa in sicurezza del quadro per far subentrare il Mart come sponsor». E lo afferma senza ombra di dubbio, come se fosse avvenuto: «il Fec dirotta altrove i 100mila euro già destinati al Caravaggio». E ancora parla di «effetto del dirottamento di questa cifra», appunto come se fosse un dato di fatto appurato. Addirittura lui, non io, sa che questi centomila euro stanziati (sottolineo che lui lo dà sempre per certo) sarebbero serviti «a restaurare il quadro nei locali del museo Bellomo di Siracusa». Ma, mi dica, come mai ha questa granitica certezza, dal momento che cita pure il passaggio in cui dico che è necessario «verificare» che la cifra fosse stata effettivamente stanziata?
E, dunque, faccio presente a Paparoni, che lo sa dal momento in cui lo riporta nel suo virgolettato, che in quel passaggio della mia relazione ricordo ciò di cui avevo messo al corrente il mio interlocutore, che era semplicemente una funzionaria del museo, alla quale riferivo di quello che a mia volta mi era stato riferito circa un impegno che il sottosegretario Sibilia si sarebbe assunto sul posto, a Siracusa, ma che di fatto non si è mai verificato. Nulla di strano, dato che da anni tutti, dalle istituzioni ai politici fino agli odierni detrattori, sono stati capaci solo di promesse e che i fatti sono solo quelli alla fine dimostrati dal Mart e dal suo Presidente Sgarbi.
E’ vero anche che il Fec, come dicevo l’altra volta, a corto di fondi, ben accetta l’intervento di soggetti privati (nel nostro caso c’è il valore aggiunto che si tratti di un museo). Lo si legge proprio sul sito del Ministero dell’Interno: «La conservazione e i restauri vengono assicurati (…) tramite sponsorizzazioni». Ed è altrettanto evidente, purtroppo, che queste ultime non possano che essere attratte dalle grandi opere che assicurano un ritorno di immagine allo sponsor, a discapito di un patrimonio cosiddetto minore, ma altrettanto bisognoso di manutenzione. Se c’è chi provvede per un’opera “big”, il Fec riesce forse a destinare i propri magri fondi per quella quota di patrimonio che non gode di santi in paradiso. Ma, ripeto, non è il nostro caso, perché il Fec non ha stanziato, né tanto più dirottato, fondi per il Caravaggio. E’ solo Paparoni ad asserirlo e, conseguentemente, è chiamato a provare questa sua certezza.
Quanto alla soluzione espositiva e conservativa, chiesa della Borgata o Bellomo, il critico vuole insinuare un difetto di coerenza da parte mia, che invece non c’è. Nel convegno sul “caso” Caravaggio che avevo promosso nel 2017 al Bellomo con l’allora direttore Lorenzo Guzzardi, avevo sostenuto la restituzione dell’opera alla chiesa originaria «con argomentazioni anche inedite utili a sottolinearne ulteriormente l’intima connessione storico-artistica col monumento». Lo scrivo in un mio articolo di quello stesso anno, che concludo con un amaro quanto realistico interrogativo: «Se ancora una volta non ci si dimostrerà all’altezza del compito, non sarà allora tanto meglio ripensare seriamente a una definitiva musealizzazione del capolavoro?». E’ quello che ho poi effettivamente proposto, come lui ricorda (male, con superficialità di nuovo: non ero “consulente”, ma componente dell’Ufficio di Gabinetto), a Sgarbi, allora Assessore regionale ai Beni culturali.
Si trattava, infatti, dell’unica soluzione a costo zero (il Bellomo, che è un museo regionale, disponeva di una sala già climatizzata e dotata di antifurto) perseguibile da un Assessorato a corto di fondi. Un Assessorato della Regione Siciliana, che tanto altro non poteva fare, dato che, non dimentichiamolo, l’opera appartiene allo Stato. Si trattava di una soluzione che ritenevo praticabile (interrotta dalla improvvisa conclusione del mandato di Sgarbi), così come in precedenza avevo proposto alla società civile siracusana un crowfunding (denominato “Un’Azione per il Caravaggio”), che a nessuno, compresi gli attuali detrattori, è interessato sostenere.
In questo clima di inerzia totale che si protraeva da ben undici anni, quando mi è stato proposto di collaborare al progetto Mart ho pensato che finalmente sarebbe stata la volta buona, dato che la mancanza di fondi fino a quel momento era stata la ragione principale del fallimento di ogni tentativo.
Infine, Paparoni riesce a fare ancora confusione: un conto è la proprietà del bene, che è del Fec, fino a prova contraria, che non è stata affatto prodotta dall’avv. Salvo Salerno da lui menzionato; altro è il protocollo d’intesa con la Regione Siciliana utile al raggiungimento proprio di quell’accordo tra enti ex art. 112 del Codice dei Beni culturali, di cui secondo l’avvocato difetta il progetto Caravaggio e di cui, invece, c’è prova di volontà proprio nella mia relazione, anche se Paparoni pure questo passaggio lo salta. Una buona prassi, ma non obbligatoria, come ancora vorrebbe il Salerno. La concertazione può mancare: l’art. 112, c. 5 dispone, infatti, che «in assenza di accordo, ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità». Come avvenuto – un esempio tra tanti, per restare in Sicilia – la mostra dopo il restauro degli stucchi del Serpotta nella Chiesa di Santo Spirito ad Agrigento, altro bene di proprietà del Fec, che ha visto come unica sinergia quella tra il Fec e la Soprintendenza. Discorso valido anche per l’accordo culturale tra Comune e Mart che stava tentando l’Assessore Fabio Granata. Accordi paralizzati, proprio dall’accanita polemica condotta dal Patto civico a cui ha aderito il Salerno, mi stupisce aver preso tanti abbagli in questa vicenda, essendomi fatta a suo tempo diversa opinione di lui, per aver raccolto nei miei articoli la sua triste storia di dirigente competente della Regione Siciliana a suo dire fatto oggetto di mobbing, e che pure mi aveva proposto di recensire un suo romanzo (con tanto di lettera di accompagnamento).
Grazie per l’attenzione, gentile direttore, e per lo spazio che mi avrà dedicato. Non tornerò più sull’argomento, se non nelle competenti sedi giudiziarie, dove, assistita dall’avvocato Luigi Monaco, del foro di Cosenza, chiederò conto di tutte le diffamazioni subite.
Silvia Mazza, storica dell'arte e giornalista, responsabile del “coordinamento tecnico delle procedure inerenti il prestito e l’intervento conservativo dell’opera”.
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