Già duemila anni fa era consolidata l’opinione che fosse qualcosa di prezioso, ma si tratta di un valore che va sviluppato e che ha bisogno di occasioni, momenti per esprimersi, circostanze non solo genetiche ma ambientali e culturali. Nessuna ricerca scientifica potrà mai dirci quanto peso ha la vocazione. Ogni comunità ha il dovere di nutrire e supportare le aspirazioni individuali, investendo in istruzione e infrastrutture sportive
«La fortuna non esiste. Esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione», Lucio Anneo Seneca dixit. Non fu esattamente lui a pronunciare queste parole ma gli vennero attribuite, quale interpretazione di un passaggio (nell’ opera De Beneficiis ¹) ritenuto la perfetta sintesi del suo pensiero in tema di destino. La realizzazione personale non va affidata alla fortuna ma ricercata con lo sviluppo costante delle qualità autentiche: un miglioramento attraverso cui farsi trovare pronti all’appuntamento con le opportunità.
Già duemila anni fa dunque, era consolidata l’opinione che il talento fosse qualcosa di prezioso che l’essere umano porta con sé, lo valorizza o addirittura dà senso alla sua vita. Non a caso il talento era il nome dato (a far inizio dai Babilonesi) ad unità di misura prima e a monete poi, così come ci ricorda anche la famosa parabola del vangelo di Matteo. Un valore che va cercato, sviluppato e che ha bisogno di “occasioni” appunto, opportunità, momenti adatti per esprimersi e realizzare la fortuna personale (di tutti).
Da allora, l’affascinante tema del talento è stato studiato a fondo e ha assunto sempre più un carattere elitario, di dono riservato a pochi privilegiati. Le ricerche non hanno portato grandi scoperte, anzi: più si analizza e maggiormente si allarga il campo di indagine e con esso, il suo mistero.
E’ un concetto talmente complesso che a un certo punto è stato necessario creare un vocabolario specifico, condiviso, per coordinare e armonizzare il lavoro degli scienziati; a conferma che il termine “talento”, da solo, non ci dice niente e che per studiarlo, bisogna scomporlo in tante variabili divisibili in due grandi categorie: genetiche e ambientali (esterne). Lo sport, per la sua caratteristica di misurabilità, è uno dei territori preferiti in cui seminare i dubbi che attanagliano il concetto di talento.
Mi mandano mamma e papà
I figli d’arte nello sport non sono una novità ma non sarà sfuggito agli appassionati, che sempre più i campioni di oggi, sono figli di quelli di ieri. Agli ultimi mondiali indoor di atletica le inquadrature sul volto di Larissa Iapichino sembravano una rivisitazione del gioco della settimana enigmistica “trova le differenze”: assomiglia più a mamma Fiona o a papà Gianni? E così per Mattia Furlani e prima di loro con Tamberi. E prima di Tamberi con i fratelli Ottoz, figli di Eddy.
E in arrivo per il futuro ci saranno Greta Donato, triplista e i giovani lanciatori Diletta Fortuna e Pietro Dal Soglio, lanciatori: tutti sulle stesse pedane dei rispettivi papà. Ma non succede solo nell’atletica. In questi giorni le trionfali discese di Federica Brignone sono occasione per ricordare i fasti della valanga rosa anni ’80 di cui la mamma, Ninna Quario, era una protagonista.
Ai prossimi Giochi olimpici parigini torneremo con la memoria ai successi di Tanja Cagnotto, figlia di Giorgio plurimedagliato olimpico, amico e rivale di Klaus Dibiasi a sua volta figlio d’arte di Carlo. Così come nella scherma ricorderemo Aldo Montano e le tre generazioni di vittorie della famiglia (il padre fu olimpionico e il nonno vice campione olimpico nel ’36). Anche negli sport di squadra i casi non mancano; dai Maldini nel calcio, ai Meneghin del basket. E chissà cosa prova il CT del volley De Giorgi ad avere metà della nazionale figlia dei suoi colleghi (Bovolenta, Gravina, Micheletto).
Che il fenomeno sia in crescita lo dimostra coi numeri l’ultima recente spedizione azzurra alle Olimpiadi giovanili invernali di Gangwon 2024. La squadra italiana, capace di aggiudicarsi il primo posto nel medagliere, era composta da 74 atleti di cui 12 figli d’arte [²], un dato che inizia ad essere statisticamente rilevante. Saranno gli studi scientifici a solcare questa via ricca di numeri e indicatori. Senza attendere i futuribili risultati, un fatto è però già molto chiaro. Se, tra i tanti sport a cui si potrebbe dedicare un atleta dotato geneticamente dell’ottima eredità ricevuta dai genitori - campioni, la scelta ricade proprio sulla stessa disciplina, sembra piuttosto chiaro che il contesto ambientale giochi un ruolo fondamentale.
L’ opportunità di accedere a informazioni, strumenti, impianti (penso ad esempio a discipline estremamente tecniche come lo slittino), la possibilità di crescere con le esperienze e le storie vissute in famiglia, l’occasione di conoscere persone entusiaste e coinvolte in una particolare specialità, possono certamente fare la differenza: nel bene e nel male! Nel senso che o allontanano o accendono la passione.
La teoria delle 10mila ore
È la passione infatti a fare da collante tra i requisiti genetici e quelli ambientali. Uno dei vari studi sul talento, forse il più noto, è dello psicologo svedese Ericsson che dopo aver analizzato la carriera di personaggi di successo in vari ambiti (artistico, scientifico, sportivo) ha concluso che la maestria, ovvero la capacità di ottenere prestazioni di alto livello in un ambito specifico, si raggiungerebbe dopo dieci anni o diecimila ore di allenamento: allenamento inteso come lavoro duro, continuo e di alta qualità. Un tempo troppo lungo da vivere e una fatica troppo intensa da sopportare, se talento e passione non vanno nella stessa direzione. E una spinta interiore così forte, capace di riempire di senso il duro lavoro quotidiano, assomiglia più alla vocazione che alla passione.
Per aggiungere mistero al fiorire del talento, nessuna ricerca scientifica potrà mai dirci quanto peso ha la vocazione rispetto alla predisposizione genetica e agli stimoli ambientali. Ma fra tante incertezze una sicurezza c’è.
Si chiama pedagogia del talento [³], ed è un approccio educativo che sposta l’attenzione dal mistero del talento elitario alla visione, inclusiva, del potenziale personale; si basa sul presupposto democratico che ognuno abbia delle qualità e capacità uniche che, se adeguatamente supportate e curate, portano alla realizzazione della propria originalità.
In ogni comunità dovrebbe essere imprescindibile creare un ambiente che nutra e supporti le aspirazioni individuali, investendo in istruzione, in infrastrutture sportive, in programmi e iniziative multi e interdisciplinari ricchi di stimoli. Così una società civile cancellerebbe la parola fortuna dal proprio vocabolario e diventerebbe un laboratorio di occasioni. Non perché tutti diventino grandi campioni, scienziati, artisti ma affinché tutti possano diventare interpreti e protagonisti delle proprie vite, che poi, è l’unica cosa che veramente conta per essere felici.
NOTE
[¹] ll grande lottatore non è colui che ha imparato alla perfezione tutte le mosse e le prese che di fronte all’avversario si usano poche volte, ma colui che si è esercitato con assidua applicazione in una o in due di esse e, attento, spia l’occasione di poterne usufruire (non interessa infatti quante ne conosca, se conosce quelle che bastano per vincere), allo stesso modo, nello studio di cui parliamo, ci sono molte conoscenze interessanti, ma poche sono quelle fondamentali.
[²] Manuel Weissensteiner, Leon Haselrieder e Alexandra Obertstolz. Stella Giacomelli, Rebecca Mariani, Marco Pinzani, Emily Innocenti, i fratelli Anna e Manuel Senoner, le gemelle Aurora e Nicole Varesco ed Antonio Pertile.
[³] Pedagogia dei Talenti, dal momento che il talento umano, inteso con l’accezione pedagogica italiana - elaborata da pedagogisti quali: Egle Becchi, Franco Frabboni, Massimo Baldacci, Umberto Margiotta - è parte integrante dell’identità di ciascuno (come sostiene anche Lucia Chiappetta Cajola).
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