La perdita di una persona è una cosa a cui non si può porre rimedio, un’amica si trova a far fronte al lutto. Questo racconto è stato pubblicato su FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola
«Andavate pure in bagno insieme, perché vi siete ridotte così, Lucrezia?». Non so cosa dire a mia madre: mi fa questa domanda ogni volta che mi tiro giù i pantaloncini per pisciare. Le sue parole fatte di saliva diventano un filo umido e doloroso che mi esce dalle cosce e zampilla nel cesso. «Non vi vedo più insieme, Lucrezia, ma è successo qualcosa con lei?»
Non so mai cosa risponderle quando mi fa questa domanda, ma alla fine le rispondo nell’unico modo possibile: mamma, stammi a sentire, non ci vedi più insieme, è vero, tieni ragione. Non ci vedi più insieme perché lei non c’è più, è morta, è schiattata all’improvviso, non me lo domandare più.
La mia migliore amica è morta ma io le porto rispetto: per lei infatti ho costruito anche un piccolo cimitero, nella casa dove vivevamo insieme.
Nella sua camera c’è una tomba di cuscini e coccinelle di plastica, tra le lenzuola ci sono i lumini: vedo ancora i suoi capelli neri, rovesciati sul letto come macchie d’inchiostro e grovigli di serpi, ci sono ancora le chiazze degli orgasmi del suo ragazzo.
In una bara ho messo la sua pianta di basilico appassita, quella comprata a due euro al mercato, e le foglie avvizzite sono marroncine, sembrano cuccioli di lucertole senza coda.
Ho chiuso il basilico in un feretro foderato di velluto rosso: le foglie si bagnano e piangono un po’, dappertutto sento colare lacrime e sperma, sulle mie guance e tra le mie gambe
«Ma come, è morta? E non dici niente, Lu’? Ma come è morta?»
Non lo so come è morta, mamma, ma avrei tanto voluto ucciderla io.
Forse quella sera avrei dovuto premerle un cuscino leopardato su quella bocca che lei si acconciava sempre a forma di cuoricino, mettermi su di lei a gambe aperte, a cavalcioni, sentirla dimenarsi come una cavalletta, e poi metterle l’orecchio sul petto e sentire il silenzio dei sepolcri, la risata silenziosa dell’urna, la musica cava del sarcofago. La dovevo uccidere io, ma non sono stata buona manco a fare questo.
La mia migliore amica aveva un nome da santa, o almeno questo è il nome che le davo io, quando la chiamavo per dirle che era pronta la tisana ai frutti rossi.
A volte me la mettevo in grembo e la cullavo e la ninnavo, la truccavo come se fosse stata un manichino gigante: le passavo i brillantini sulle palpebre che scottavano, le pizzicavo le guance per metterle la cipria e lei mi starnutiva tra le mani, mi guardava con lo sguardo spaventato da palomma, le pupille da uccello, ombreggiate di chiaroscuri e polverine.
Le sottolineavo di nero gli occhi, rotondi come olive ammaccate, glieli facevo diventare allungati ed egiziani, poi le premevo la spazzola sul cranio e le dicevo: adesso sei pronta. Le spruzzavo un brutto profumo che sapeva di fiori secchi, quei fiori che si sbriciolano al sole e che sanno di gonne di bambole di vecchie, fiori morti come sarebbe stata lei di lì a poco.
Ci piaceva camminare per i bar della città e scrivere. Li conoscevamo tutti a memoria, li avevamo battezzati tutti con nomi che sapevamo soltanto noi.
Un cliché
Noi due eravamo un cliché ambulante: l’amica più grande e quella più piccerella, la mamma e la figlia, io quella scostumata e lei quella più aggarbata, io quella che la voleva proteggere e lei che si faceva custodire, io quella che prendeva la birra e lei il thé caldo, io quella che rispondeva male a tutti e lei quella che pensava sotto la doccia alle risposte da dare nelle discussioni.
Eravamo un romanzo alla melassa, messe insieme facevamo uno stereotipo, mescolate tutte e due facevamo una minestra stucchevole che faceva venire mal di pancia e diarrea.
Scrivevamo le cose e ce le leggevamo a vicenda, ad alta voce, recitando i racconti come brutte attrici consumate: io col mio accento strascinato, lei pigolando con una vocetta stridula.
Sognavamo di pubblicare un libro e ci correggevamo a vicenda, facendoci critiche e complimenti, convinte che la sacra brace della letteratura avrebbe continuato a riscaldarci fino alla vecchiaia, speravamo in un matrimonio e invece ora sto sistemando i cerini attorno alla sua bara, simmetrici e ordinati, preparo questo funerale con lo stesso amore con cui le sistemavo le pieghe della veste, l’amore con cui le davo il bacio della buonanotte e le preparavo la colazione, girando la città a piedi per cercarle lo sciroppo d’acero.
La prima sera in cui lei ha chiavato con il suo fidanzato, io le ho prestato la mia gonna arancione.
A mia volta, io l’avevo usata una sera che io avevo fatto un bocchino a un tizio di Portici dietro l’Orientale: quella gonna si era presa il peso delle mie ginocchia e la polvere del centro storico di Napoli. Il tessuto di quella gonna era il simulacro della sessualità mia e della mia amica, era impregnato di secrezioni che ci scambiavamo come le formiche che si passano i liquidi di bocca in bocca. Quella gonna ha ancora la sua temperatura, è l’unica cosa che lei mi ha lasciato prima di andarsene a morire.
Niente ‘cchiù
La mia amica ha iniziato a morire da qualche mese, e proprio come i morti si è resa irraggiungibile, ora vive in un suo perimetro sacro di indifferenza acquatica: io le ho preparato la cassa da morta, le ho cucito il drappo funebre, ma se busso sul legno del feretro almeno lui mi risponde, lei invece non mi parla più, si è dissolta, si è vaporizzata, come quelle puzze impalpabili che stanno al vico Spogliamorti, che a un certo punto salgono al cielo e non rimane niente ‘cchiù.
Mi ha scancellata con una secchiata d’acqua, me l’ha menata ‘nguollo e mi ha fatta sparire: a volte mi tocco e mi ripasso le vertebre, una per una, per vedere se ci sono ancora perché, fuori di lei, tengo il dubbio di non esistere più.
Se la vedo per strada, lei ha uno sguardo nebuloso, quello dei trapassati: gli stessi occhi dove io passavo l’ombretto, adesso non mi riconoscono più.
A volte credo che sia scimunita o abbia avuto un ictus, e ictus in greco vuol dire pesce, e lei con me ha lo stesso silenzio dei pesci che dormono sul fondo del mare, il suo corpo è estraneo e scivoloso, terribile e brillante e pieno di chiazze argentate e bagnate di oceano.
Lei nuota nel mondo dei morti, lei e il suo ictus della memoria, non parla più: con un colpo di coda ha raschiato via gli anni condivisi a vivere insieme, scrivere insieme, mangiare insieme, pisciare insieme, a volte vorrei prenderla tra le braccia e picchiarla per farle tornare la memoria, ma i morti non si toccano, i morti vanno lasciati stare, io non piango per lei, perché a chiagnere per un morto so’ lacreme perze. Le lacrime per lei sono lacrime jettate, tanto vale menarle in pasto ai porci.
Un libro
Io le avevo promesso che avrei scritto un libro e l’ho fatto, e tutti mi avevano detto che una scrittrice quando pubblica ha tanti problemi, critiche e scassamenti ‘e cazzo.
Io lo sapevo, eccome se lo sapevo, ma in questi mesi, non c’è nulla che mi abbia menato sott ‘e ngoppa, se proprio la devo dire tutta e la devo dire intera.
In realtà ho ricevuto assai amore, uno scroscio umido che mi lucida in continuazione le guance, e tutti i coriandoli di male che ho ricevuto sono dei piccoli stimoli di solletico e nulla più.
Certo, gli scassacazzi ci sono stati: una volta ho acchiappato uno scrittore cinquantenne che voleva insegnarmi a scrivere e a campare, poi un’altra volta ho intravisto sui social una recensione di odio scritta da una signora più grande di me che l’anno scorso si era invaghita del mio fidanzato, anche lui scrittore, insomma sciocchezze, cose ‘e niente, sputi di noia, ma nulla in confronto a quello che mi è successo la sera della presentazione a cui tenevo di più.
Quella sera mi ero preparata come una sposina, sciocca ed emozionata.
Ero patetica nella mia attesa, speravo in un colpo di teatro, mi ero agghindata con una coroncina in testa e aspettavo la resurrezione della morta, come le donne di fronte al sepolcro di Gesù Cristo. Tutti aspettavano me per sentirmi sproloquiare del libro, ma io me ne stavo sul palco in punta di piedi chiedendo tempo.
«Un attimo e cominciamo» e io me ne stavo con il mento proteso verso la porta della sala, da dove stava entrando una processione serpentesca. In quel corteo ho riconosciuto tutti: ho visto i miei parenti in grande spolvero, le cugine di quinto grado, le maestre dell’asilo tutte incartapecorite e mummiesche, il mio ex fidanzato con cui dovevo sposarmi e che aveva ancora l’anello in mano, tutti i ex miei partner sessuali orgogliosi e schierati come un plotone d’esecuzione, le mie compagne delle elementari tutte sposate, il tizio da cui compravo le cartine lunghe a piazza Bellini, i miei alunni perplessi e pronti a bestemmiare il Pataturco.
Ho osservato la processione, ho chiesto tempo, mi sono aggiustata la coroncina, ho chiesto altro tempo, la porta si è aperta ed è entrato l’ultimo partecipante: il barbone della Circumvesuviana, quello che ogni lunedì diceva di essere uscito il giorno prima da Poggioreale e che chiedeva un’offerta a piacere perché aveva otto figli moribondi e una moglie zoppa. Era arrivato anche lui, erano arrivati davvero tutti, non mancava nisciuno ‘cchiù.
Una cosa che non si può imparare
Ho continuato a osservare e aspettare, ma la presentazione doveva cominciare
Le porte si sono chiuse, ho preso il microfono in mano e ho realizzato che la mia amica era morta davvero.
Ho fatto la mia presentazione da sposa abbandonata e ho capito che quella sera io non sarei stata felice manco per sbaglio, e che non aveva senso sentirmi dire da frotte di sconosciuti quanto io fossi brava, quanto il mio libro li avesse emozionati, quanto li avesse folgorati come una saetta, se non era riuscita a farla arrivare, se non ero riuscita a tenermela, se lei era morta senza avvertire.
Morta, morta accisa, morta intussecata, morta senza avvisaglie, senza nemmeno una malattia a fare da spartiacque, morta non tra le mie braccia ma lontana, morta di amnesia, morta come le persone che muoiono di un incidente, che la mattina ti salutano con un bacio sulla guancia e la sera le trovi stese nel cappotto di legno, e glielo dai tu il bacio, ma sulla fronte. Morta, morta così bene che avrei voluto ammazzarla io.
Io e lei credevamo che la scrittura avrebbe risolto tutti i nostri problemi e invece non ci ha salvate, ci ha solo involgarite.
Credevo di riuscire a renderla immortale, ma sto solo incantando i serpenti, combinando cadaveri, suonando il piffero per una morta che non mi vuole stare a sentire.
Siamo state l’anti letteratura, siamo state il contrario di tutti i romanzi che si vedono sugli scaffali: non siamo state le eroine sorelle, non siamo state le amiche geniali, non siamo state quella sfigata che impara a ribellarsi e grazie a quella più scetata, non siamo state quelle che si salvano a vicenda, non siamo state l’amicizia che riscatta una vita, io e lei siamo state le amiche che si fanno lo scherzo di morire.
Perché ci dicevamo bugie, ci mentivamo a vicenda, perché tu mi stringevi i polsi e mi facevi credere che la mia scrittura sarebbe riuscita a fare tutto, però non me l’avevi detto che i morti non avrei mai imparato a resuscitarli.
© Riproduzione riservata