- Sul rosso spiccano giocatori con caratteristiche precise: le scivolate, la palle in top-spin, i lunghi scambi. Molti si sono imposti qui senza riuscirci altrove: da Adriano Panatta a Yannick Noah, da Michael Chang a Andrés Gómez, fino a Sergi Bruguera, Thomas Muster, Carlos Moyá, Albert Costa, Juan Carlos Ferrero, Gastón Gaudio
- La terra rossa ha invece bocciato tanti numero uno, come John McEnroe, Boris Becker, Stefan Edberg e Pete Sampras. Per loro, mai un successo in Francia.
- Ma il gioco è stato rivoluzionato dalla modernità: i materiali, preparazione atletica e stili favoriscono un livellamento nelle condizioni di gioco. C’è anche Yannick Sinner fra i candidati al titolo.
Forse non proprio aperta, certo non più sbarrata con gabbia e serraglio. La porta di Parigi che conduce al Roland Garros –Auteuil, ai margini della città, verso il bosco cittadino di Boulogne – è in procinto di tornare a essere ciò che fu prima della dittatura dispotica di Rafa Nadal.
Il cui dominio si è provato a raccontare, tradurre in cifre (zero finali perse, 74 avversari battuti, 112 vittorie e 3 sconfitte), soppesare con altri record spaventosi, come gli ori nel nuoto di Phelps, i primati di Bolt nell’atletica, i gol di Pelé e, insomma, quelle poche affermazioni di superiorità umana disarmanti.
Un collega meno celebre di Rafa l’ha condensata meglio di tutti: «Forse la gente non si rende conto di cosa significhi, di quanto sia difficile riuscire a partecipare a quattordici edizioni del Roland Garros. Nadal, quattordici volte lo ha vinto».
Quasi con sorpresa, quindi, accogliamo l’edizione dello Slam parigino in cerca di un altro padrone non precostituito, con quel misto di nostalgia e smarrimento che accompagnano i passaggi epocali. Roger Federer ha appena aggiornato, con otto mesi di ritardo, la sua biografia su Twitter, passando da un sempiterno «professional tennis player» a «no longer a professional tennis player».
Ci scherza ancora: l’altro giorno, ha risposto a un fan che gli domandava quando sarebbe tornato che «non me ne sono mai andato» ma, mutatis mutandis, la risposta assomiglia a quel “è solo sonno arretrato”, sulla lapide di Walter Chiari.
Fa sorridere e mette il magone ma non muta la realtà. Nadal ha spiegato, riottosamente, le curve e le salite della sua condizione di trentasettenne, abituato a festeggiare il compleanno mentre tritava qualche avversario sul rosso del Philippe Chatrier nei primi turni, al quale il corpo sta chiedendo i conti con arretrati e interessi.
Per la prima volta dal 2004 il suo nome non è iscritto alla lista dei centoventotto in gara e, sempre che tutto vada per il verso giusto, lo si ritroverà il prossimo, per un’ultima cavalcata d’addio.
Una storia di successi occasionali
Di qui a ritenere che il Roland Garros sia una terra di conquista, ne passa. Certo è che si scorgono i presupposti perché torni a rappresentare quello Slam nel quale si può infilare anche il non (ancora) eletto, la seconda linea di lusso.
O, semplicemente, un primo tra i pari, un giocatore con caratteristiche particolarmente affini per il gioco sulla terra: le scivolate, gli spin, il respiro lungo degli scambi sul rosso.
Se finora il ragionamento pareva accantonato, è perché il triumvirato ha sballato ogni statistica degli ultimi vent’anni, non solo a Parigi; a scorrere l’albo d’oro del torneo, però, la storia offre indicazioni in questo senso.
Partiamo pure dall’era analogica ma già abbondantemente professionistica: Adriano Panatta (1976), e poi via via Yannick Noah (1983, l’ultimo successo francese in campo maschile), l’eroico Michael Chang del 1989, l’imprevedibile Andrés Gómez (1990), l’arrotino Sergi Bruguera (1993 e 94), il gladiatore austriaco Thomas Muster (1995), e l’infornata ibero-argentina con Carlos Moyá (1998), Albert Costa (2002), l’attuale coach di Alcaraz, Juan Carlos Ferrero (2003), Gastón Gaudio nel 2004 – con tanto di match point salvato, in finale, contro Guillermo Coria. Campioni che hanno fatto centro solo e soltanto in questo appuntamento, il campionato del mondo su terra battuta.
La mutazione di stili e superfici
Certo, vanno necessariamente aggiunte postille: il gioco è stato rivoluzionato dalla modernità, così i materiali, la preparazione atletica, gli stili. I grandi appuntamenti del tennis sono stati il più possibile livellati nelle condizioni di gioco - erba più lenta, cemento mediolento, terra più rapida - per consentire alle gerarchie consolidate di offrire ai tifosi le medesime sfide nel maggior numero possibile di occasioni, e agli organizzatori sfide vendibili a più caro prezzo.
Non a caso, Federer e Nadal si sono sfidati quaranta volte, Federer e Djokovic cinquanta, Djokovic e Nadal cinquantanove. Panatta poteva giocare d’attacco e irridere Solomon, Gomez tocchettare la palla con una mano deliziosa e irretire Agassi, pur avendo al mobilità del bradipo; Chang e Muster frustravano le altrui ambizioni con gambe e polmoni tra triatleti, così Bruguera.
Il tratto d’unione che rende peculiare Parigi, in questa carrellata di vincitori non scontati, è la sua apertura non ai soli nomi di grido: tra un annetto ricorrerà il quarantesimo dell’autoflagellazione di John McEnroe, giunto a un soffio dal titolo più rimpianto nella finale del 1984, persa scelleratamente contro Ivan Lendl.
Negli anni Novanta, gli altrove soliti noti Becker ed Edberg fallirono l’assalto a Parigi – lo svedese fu vittima sacrificale dell’indiavolato Chang, Becker non superò mai lo scoglio della semifinale; parimenti King Sampras, coi suoi quattordici Slam e una vita da numero uno, sì, salvo che nella Ville Lumière.
Il rivale storico, Andre Agassi, pareva instradato verso la stessa e mesta fine (due match per il titolo persi, 1990 e 1991, e una carriera ormai alla conclusione) ma fece il miracolo nel 1999, e ancora non ci si spiega come sia riuscito a raddrizzare un match straperso contro Andrei Medvedev (l’ucraino, niente a che spartire con Daniil).
I favoriti
Se Wimbledon e Us Open mostrano criteri di selezione più ristretti nella selezione dei potenziali vincitori, Parigi ha maglie più larghe. E lo Slam francese de-nadalizzato offre una chance non a tutti, ma a qualcuno in più. A seguire le quote offerte agli scommettitori si farà peccato ma difficilmente si sbaglia e il capofila dei pretendenti è proprio Carlos Alcaraz, già battezzato numero uno e titolare di uno Slam.
Lo spagnolo ha tutto per farcela: tennis, fisico, mentalità e fame da rapace. Sui campi in terra il suo gioco vario, il topspin pesante, le smorzate, l’intensità e la coordinazione nei colpi in corsa esaltano caratteristiche che giustificano chi vede in lui una prosecuzione di Rafa.
Il più giovane numero uno Atp della storia è stato sorteggiato nello stesso lato di tabellone dell’ultimo grande vecchio ancora in salute, Djokovic. I due si potrebbero scontrare in semifinale e, sebbene questa superficie non sia la prediletta dal serbo, Novak resta comunque tra i favoriti.
La motivazione ulteriore della disputa sul maggior numero di titoli Slam (attualmente in compresenza con Nadal, a quota ventidue) e la capacità innata di adattarsi al tennis sulla distanza dei cinque set lo rendono un avversario degno della massima considerazione, nonostante una stagione “rossa” non molto brillante. La sua sconfitta più recente, a Roma, è arrivata per mano di un giocatore dal nome nibelungico, Holger Vitus Nødskov ed è lui, Rune, anche per i bookmaker, il terzo aspirante al titolo con possibilità di successo.
A dispetto dell’età verde - è nato nel 2003 - la curva di crescita del danese è tipica dei fuoriclasse: nel volgere di neanche un anno ha ottenuto il primo titolo Atp a Monaco di Baviera, il primo quarto di finale Slam proprio al Roland Garros, il primo Master 1000 a Bercy, il sobborgo parigino, e le fresche finali a Monte Carlo e Roma, dove da diciotto anni si palesavano la domenica della finale almeno uno tra Nadal e Djokovic.
La sua capacità di variare il gioco e di mantenere ritmi forsennati, senza particolari debolezze, ne fanno un sicuro giocatore da Slam. La rosa si allarga al finalista del 2021, Stefanos Tsitsipas, rappresentante moderno del gioco vintage a tutto campo, cui però fa difetto un colpo (il rovescio) che, insieme alle grottesche litigate con la madre pseudo-coach nel bel mezzo dei match e la tendenza a ingarbugliare partite semplici, sta rendendo una carriera iniziata con fuochi, fiamme e un titolo alle Atp Finals una specie di ruolo da riserva di rango.
Un passo indietro ma neanche troppo, guardando nella seconda metà del tabellone del Roland Garros, l’elemento (non più) estraneo è Daniil Medvedev, l’uomo che dichiarò il suo odio per la terra battuta augurandosi che venisse depennata dalla lista delle superfici del tennis «perché la palla rimbalza male, ci si sporca e vorrei non doverci giocare mai più».
Il numero uno della Race, la classifica coi soli punti del 2023, ha smesso di imprecare e imparato ad ammaestrarla, tanto da far suo il trofeo degli Internazionali d’Italia e proporsi come outsider anomalo. Specialmente se il clima parigino dovesse farsi autunnale e rendere i campi più simili a un cemento molliccio, contenendo i rimbalzi e consentendo al suo tennis, fatto di ritmo e colpi più piatti della media, di rendere al meglio.
E poi, ultimo ma non per possibilità, Jannik Sinner. Del resto, il Dolomiti Kid è a Parigi che ha piazzato il suo primo quarto di finale Slam, nella edizione-covid di ottobre 2020. Finora c’è sempre stato un asterisco, accanto alle sue prestazioni nelle grandi occasioni su terra: le due sfide parigine contro Rafa Nadal giocate a luci spente, la semifinale di Monte Carlo di quest’anno ceduta di nervi al tignoso e provocatorio Rune.
Ciò non toglie che il suo gioco di formidabili pallate, sebbene più limitato rispetto all’assortimento di Alcaraz e Rune, sia destinato a fargli ottenere ciò che al tennis maschile italiano manca proprio da quel giorno di giugno del 1976.
Quando Adriano scostò il ciuffo e, negli spogliatoi del campo centrale, davanti allo specchio, lasciò cadere sul povero Harold Solomon, un soldatino pelosetto esperto in ribattute e difese, una spanna più corto di lui, le seguenti parole: «Ma su, guardati. Come puoi pensare di battermi?»
Oggi lo chiameremmo bullismo, ma questa è un’altra storia.
© Riproduzione riservata