Dopo trent’anni di Corriere della Sera Antonio D’Orrico, il Joker, l’Arbore della critica letteraria italiana, un Fiorello supercolto che esplora il mondo letterario, sbarca in digitale con la sua rubrica stracult La pagella su Instagram e continua la sua mitica rubrica e il dialogo coi lettori nella newsletter il Joker in cui condivide recensioni, riflessioni e scoperte letterarie. Regala a Domani la sua prima pagella.


Jiří Weil

Sul tetto c’è Mendelssohn

Einaudi

C’è da spostare una statua. È quella del musicista Mendelssohn. Succede a Praga durante l’occupazione nazista. La statua di Mendelssohn ha fatto infuriare Reinhard Heydrick, vice Reichsprotektor per la Boemia e la Moravia, già generale di corpo d’armata (SS-Obergruppenführer).

Stava per infilarsi nella sua limousine, una Mercedes-Benz nera ornata di bandierine pronte a garrire al vento (cosa mai ci sarà da garrire?), quando l’ha vista, insieme ad altre sculture, a fare da corona sopra la Casa tedesca delle arti, l’ex sede del Parlamento cecoslovacco requisito dagli occupanti nazisti.

Il viso gli si è contratto «nell’espressione d’una rabbia e di un odio feroci». Allora ha abbaiato (ma anche un cane idrofobo sarebbe stato più garbato) a un suo manutengolo che di cognome fa Giesse: «Giesse, faccia immediatamente in modo che quella statua venga rimossa. Telefoni questa notte stessa al Comune, ci dev’essere certo qualcuno di servizio. È intollerabile, è inaudito, è una negligenza peggiore ancora che non l’alto tradimento. Sul tetto c’è Mendelssohn!».

Testo dimenticato

L’insopportabile presenza sulla Casa tedesca delle arti di una statua ebrea è il casus belli, il detonatore di Sul tetto c’è Mendelssohn, romanzo straordinariamente portentoso e portentosamente straordinario (crepi l’avarizia dei recensori ordinari), romanzo incredibilmente dimenticato (uscì postumo nel 1960).

Ne fu autore Jiří Weil, nato nel 1900 e morto nel 1959, scrittore boemo dalla vita tempestosa e contraddittoria come il secolo che lo accolse (ma fu un’accoglienza non proprio calorosa). Weil fu ebreo e non ebreo, comunista e non comunista. La sua esistenza si svolse in bilico tra farsa e tragedia, due generi antitetici che spesso si danno la mano.

Le SS volevano farlo fuori. Lui le dribblò, prima con un matrimonio combinato (ignoro i particolari, ma la trovata già da sola merita plauso) e poi fingendosi morto, applicando cioè l’arte della tanatosi in cui eccelle l’opossum della Virginia che spacciandosi per cadavere non cade preda del prepotente di turno.

Sconfitto il nazismo, la pratica Weil passò agli stalinisti (difficile dire quale fosse la padella e quale la brace) che lo condannarono all’esilio.

Torniamo al suo capolavoro. Bisogna levare al più presto la statua del musicista ebreo dal tetto della Casa delle arti tedesche, e quindi ariane, secondo la volontà (quasi ultima, ma lui non può saperlo) del vice Reichsprotektor. Ma perché si è tanto arrabbiato? Perché Heydrich stava nella manica di Hitler (diceva sempre che, a richiesta del führer, avrebbe ammazzato pure sua madre).

Invece della genitrice, Hitler gli chiese invece di ammazzare tutti gli ebrei. Fu Heydrick, più che Eichmann, il deus ex machina della soluzione finale.

Fu lui a capire che il letale Zyklon B era il toccasana per risolvere il problema. Funzionava indubbiamente meglio delle iniezioni di benzina, delle martellate, delle accettate, dei colpi con il calcio del fucile, metodi sperimentati inizialmente per liberarsi dei giudei, metodi che richiedevano troppo tempo, troppa fatica, troppo personale.

Metodi grossolani che non si addicevano alla più grande industria della morte mai vista al mondo. Siamo dentro l’orrore in purezza, ma Jiří Weil possiede il senso dell’umorismo che ha permesso ai cechi di affrontare angherie e tribolazioni, il senso dell’umorismo di Jaroslav Hašek e del Buon soldato Sc’véik (da leggere se mai letto, da rileggere se già letto), il senso dell’umorismo di Franz Kafka (il più frainteso dei grandi scrittori comici), il senso dell’umorismo celebrato da Philip Roth nel romanzo L’orgia di Praga (il bellissimo libro che racconta come, di fronte alla dittatura sovietica, i cechi vararono una forma inedita di resistenza, la resistenza sessuale).

Una pochade

Intanto la rimozione della statua casus belli diventa una pochade. Gli impiegati del Comune incaricati di abbatterla non sanno come riconoscerla tra le tante statue che ornano il tetto dell’ex parlamento (a un certo punto rischiano il patatrac scambiandola per quella di Wagner, l’idolo musicale del Terzo Reich).

Succede un po’ come alle guardie nazionali ferroviarie di Asti incaricate dalle alte sfere naziste di rintracciare una improbabile mappa del ferrocarril “chicano” (scusate il gaddismo maccheronico ma ci sta a pennello) in Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (avrà letto Weil?), Laurana, il romanzo che assieme a La ricreazione è finita di Dario Ferrari, Sellerio, e a R4 di Piero Trellini, Mondadori, ha salvato una annata letteraria italiana altrimenti pronta per l’estrema unzione o, in alternativa, per la dichiarazione di morte presunta. Il Ninfeo di Villa Giulia è diventato un obitorio.

E così una variopinta compagnia si trova ad affiancare gli inservienti municipali nell’eseguire l’ordine del vice Reichsprotektor per la Boemia e la Moravia.

Tra di loro si sono «il ben pasciuto» SS-Rottenführer (caporal maggiore) Schulze II e il dotto ebreo Rabinovič, ieratica figura della Comunità ebraica praghese. Di quest’ultima si fornisce una struggentemente vivida descrizione: «Davanti all’edificio della Comunità ebraica nella Josevofská stazionavano diverse persone. Strette l’una all’altra in piccoli capannelli, bisbigliavano eccitate qualcosa, i capannelli arrivavano fino al municipio ebraico, si scioglievano e nuovamente si ricomponevano, altre persone accorrevano, si affiancavano al tipo che si era appena inventato una nuova notizia allarmante, per poi correre invece da chi se n’era inventata un’altra più rassicurante. E in questo modo passavano veloci dalla disperazione alla speranza, si scambiavano le notizie, e così le notizie viaggiavano e, a volte, una notizia positiva ne incontrava un’altra disperata».

Exit la farsa, entra in scena la tragedia. I nazisti raccontati da Weil sono feroci e fatui, sentimentali e spietati, la miscela ripugnante di cui dovevano essere fatti quelli veri. Miscela che li rende capaci di adoperarsi amorosamente, approssimandosi Natale, per mettere le mani (ancora grondanti di sangue) su porcellane di Meissen da regalare alle mamme lontane, patite del genere.

La scelta cade su un rarissimo Giudizio di Paride che Weil descrive con la cura di chi deve testimoniare al mondo che la bellezza un tempo è esistita: «Le statuette delle tre dee avevano quella fragile bellezza degli amanti non ancora intaccata dalla rigida limitazione dell’arte antica, le curve dei loro corpi erano tondeggianti, i fianchi sottili e i seni piccoli: eccole lì nude davanti a Paride la prima è Afrodite, dietro di lei Pallade Atena e in ultima posizione Hera, la più elaborata. E non potevano esserci dubbi che Paride avesse potuto offrire la mela d’oro solo alla dea nata dalla schiuma del mare».

I nazisti danno la morte mentre regalano squisite porcellane alle mamme adorate. Cantano «commoventi canzoni da massacratori» e «non c’è al mondo tormento che loro non riescano a inventarsi». Costringono per sfizio il dotto e tremebondo Rabinovič a suonare lo shofar, il corno del giudizio universale, facendogli commettere il sacrilegio più imperdonabile.

Improvvisano per capriccio impiccagioni. Torturano a morte due bambine, due sorelline, due Anne Frank praghesi e lo fanno a tempo già scaduto, quando il Terzo Reich è ormai crollato sotto i colpi dei russi liberatori.

Sul tetto c’è Mendelssohn è il romanzo definitivo sul nazismo, scritto come un reportage da un reporter fradicio di sacre scritture: «E fu allora che arrivarono in volo i corvi. Non erano mai apparsi prima nella cittadella...». Sul tetto c’è Mendelssohn è il 74esimo libro della Bibbia, quello che manca nelle Bibbie correnti, quello che narra di quando Dio si girò dall’altra parte e lasciò che Heydrich e gli altri angeli della morte imperversassero sul mondo.

P.S. Jiří Weil era uno degli scrittori preferiti da Philip Roth. Ammirato dallo stile laconico con cui Weil raccontò la barbarie e il dolore, Roth considerava quella sobrietà il commento più feroce all’apocalisse hitleriana.

VOTO: 10

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