- A Ian Bremmer, preoccupato delle infodemie, basterebbe che i social censurassero un po’ meglio, come se il problema non nascesse dall’arruolamento indistinto di utenti e l’algoritmo di “raccomandazione” non favorisse i contenuti più epidemici.
- L’intelligenza artificiale è una mappa di comportamenti più o meno probabili in funzione delle statistiche che il sistema di riferimento sedimenta.
- La morale è che la situazione è tesa e che, salvo miracoli, il mondo tende a separarsi dietro le splinternet e le intelligenze artificiali, che trasformano in materiale d’arma i social.
Il politologo americano Ian Bremmer scrive nel Potere della crisi che i social, creando «infodemie», paralizzano la politica a fronte di crisi ineludibili: la «disfunzionalità istituzionale» degli Stati Uniti, le spinte al disaccoppiamento Usa-Cina; l’emergenza climatica; l’accelerazione dirompente delle tecnologie nei confronti dei ruoli e dei lavori.
Ma, nonostante tanto allarme, gli basterebbe che i social censurassero un po’ meglio. Come se il problema non nascesse dall’arruolamento indistinto di utenti e untori e l’algoritmo di “raccomandazione” non favorisse i contenuti più epidemici.
Utenti, untori e inflazione diffusiva
L’utenza di ogni social (Facebook ne assomma due miliardi) è un’orda in cui non si distinguono le persone in carne e ossa (vive e vegete, dichiarate oppure coperte da pseudonimo) rispetto agli spam bot che, automatizzati in tutto o in parte, incalzano gli umani con messaggi che altri bot affratellati, per innescare le “tendenze”, ricoprono di like e condivisioni fino al punto di riuscire a stuzzicare il super bot (l’algoritmo) della piattaforma.
A beneficio dell’“inflazione diffusiva” che conviene al business social e si sviluppa contando sul favore del governo. Non solo grazie ai bilanci giganteschi delle Big Tech, ma anche grazie al patrimonio di dati che controllano perché, spiate a parte, quell’accumulo senza fine è strategico per sviluppare e nutrire l’intelligenza artificiale Usa nel confronto con quella della Cina.
Dati e intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale è infatti una mappa di comportamenti più o meno probabili in funzione delle statistiche che il sistema di riferimento sedimenta. E la mappa non è statica, ma evolve su una base più o meno solida a seconda della quantità di dati che vengono raccolti e analizzati.
Quindi intelligenza artificiale fa rima con big data. A partire dai dati di comportamento raccolti a mezzo social (nonché dai motori di ricerca, dalle vendite online, dalle piattaforme on demand) come tragitti degli individui, spese di Natale, dati sanitari, spettacoli, taxi prenotati, pizze a domicilio, divani con lo sconto, aspirapolvere liberi dal filo, mutui per le case, fatture elettroniche spedite e bonifici incassati.
Quanto basta, anche se riguardasse solo i cittadini di un paese, a fornire bandoli dell’agire umano, delle dinamiche d’umore in casa propria (per analogia anche quelle in casa del possibile nemico) e, in ultima istanza, ottenere che la tua intelligenza artificiale sia adeguatamente sveglia.
In questo quadro è ovvio che la Cina, che può confidare sul patrimonio di dati generati dal suo miliardo e mezzo d’abitanti – e allevare un’intelligenza artificiale in proporzione – abbia separato la propria rete da quelle altrui e sia ben lieta di contare sui social di produzione nazionale, non soggetti alla giurisdizione americana.
Anche se consente l’azione delle Big Tech Usa nel proprio mercato, ma a patto che i dati stiano rinchiusi in server locali di cui solo i tecnici cinesi abbiano il controllo. Seguirà ben presto l’India che, pur nei conflitti conclamati che la squassano, non potrà non tutelare la propria posizione rispetto alla Cina confinante e agli stessi suoi ex colonizzatori d’occidente.
Tanto più in questa prospettiva, i dati europei sono strategici per reggere il confronto con quei paesi popolosi, ma gli europei hanno i loro interessi da difendere e si guarderanno, si spera, dal consentire ad altri, senza nulla in cambio, la disponibilità delle tracce social del loro mezzo miliardo d’abitanti. Questo è il senso che ci pare di poter estrarre dalle direttive europee che cercano di mettere le briglie alle Big Tech, per compensare l’assenza, almeno fino a ora, di equivalenti propri da questa parte dell’Atlantico.
Per evitare la corsa bellica all’intelligenza artificiale Bremmer ritiene che il suo sviluppo dovrebbe essere cooperativo e non rinchiuso nei confini d’uno stato. Ma i margini per riuscirci sono irrisori considerando che quel che si contesta, quanto alla Cina, è l’intendimento stesso di sviluppare in autonomia tecnologie all’avanguardia, prima fra tutte l’intelligenza artificiale.
Quindi lo sviluppo cooperativo della AI potrebbe esserci solo dentro un accordo più ampio per un nuovo ordine mondiale. Evento improbabile e lontano, per cui avremo, come ormai per Internet che va divenendo splinternet, sviluppi separati di intelligenze artificiali di potenze separate e sospettose che vivranno un crescendo di paura, perché gli avanzamenti della AI stanno tutti dentro una pennetta e non puoi constatarli come i carri armati o le navi della flotta.
Un mondo dove sono materiale d’arma, e non fra gli ultimi, proprio quei social che apparvero per scovare i primi amori e scambiare foto di gattini.
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