L’arrivo del reality aveva dato vita a una nuova categoria di idoli, non più statue inarrivabili e perfette ma gente comune, persone normali, vere, che dicono ciò che pensano, che se ne sbattono delle formalità opprimenti della vecchia televisione
Nella cameretta di Agata c’era qualcosa di ancora più interessante di quel volume pieno di testimonianze e della sua fame di spettacolo. Il muro era ricoperto da poster, manifesti ricavati da pagine del Cioè e ritagli di giornale con un solo volto che si ripeteva per almeno cinque o sei pose, con sguardi e posizioni diverse, quello di Salvo Veneziano, il secondo classificato della prima edizione del Grande Fratello.
«Ma perché ti piace Salvo?» le ho chiesto quel primo pomeriggio di pellegrinaggio nella sua strana ma affascinantissima casa. E lei mi ha risposto: «Perché dice sempre quello che pensa».
I nuovi idoli
L’arrivo del reality aveva dato vita a una nuova categoria di idoli, non più statue inarrivabili e perfette ma gente comune, persone normali, vere, che dicono ciò che pensano, che se ne sbattono delle formalità opprimenti della vecchia televisione.
Nel settembre del 2000, con la prima e indimenticabile stagione del Grande Fratello, iniziava una nuova era, un reset culturale e storico che prometteva tanto. Marina La Rosa, soprannominata «la gatta morta», in un periodo in cui ancora il sessismo non era contemplato come segno negativo del racconto ma come semplice decorazione narrativa, prima che internet ci desse un piccolo microfono per diventare noi la Gialappa’s di qualsiasi cosa, Marina, dicevo, era una silfide stralunata, la disturbatrice degli equilibri ormonali e sentimentali della dimora.
Rocco Casalino poi, chi glielo doveva dire dove sarebbe arrivato e cosa sarebbe diventato? Un giorno l’ho anche incontrato al cinema, pochi mesi dopo la fine del Grande Fratello, a vedere un cartone animato, accompagnato da un uomo, ben prima che Fabrizio Corona lo minacciasse di morte, ben prima di diventare una pedina sulla scacchiera di Lele Mora ma soprattutto ben prima di autoproclamarsi «il Portavoce».
Pietro Taricone, vero eroe tragico, era il ragazzo della porta accanto: bello, muscoloso, simpatico, irresistibile. La sua morte gli ha concesso di non invecchiare, al contrario dei suoi coinquilini, e di non deteriorare il ricordo vitale e possente che abbiamo di lui. E poi c’era Salvo Veneziano, il pizzaiolo di Siracusa.
Salvo, che in un’intervista a una rete privata, dopo un suo concerto in piazza – perché le velleità musicali quando si parla di showbiz non si negano a nessuno – dichiara con strafottenza: «Non sono Salvo del Grande Fratello, sono Salvo Veneziano. Pietro Taricone? Non ci sentiamo più».
Eppure, vent’anni dopo, quando Salvo si ripresenta nella casa del Grande Fratello Vip, quando al posto di Daria Bignardi c’è Alfonso Signorini e al posto della gente comune ci sono le celebrità, quando dunque il format è così stanco da doversi reinventare come fabbrica di rilancio di personaggi mai davvero famosi, o famosi troppo tempo prima e per troppo poco per essere ancora rilevanti, Veneziano entra dicendo chiaramente che quel ritorno lo dedica a lui, al suo amico Taricone che non c’è più.
Una porticina minuscola
Il Grande Fratello era un imbuto, una porticina minuscola attraverso la quale si poteva passare per accedere a una nuova dimensione esistenziale, ben prima che arrivasse internet a rompere gli argini dell’accessibilità alla fama.
Chissà se Salvo e Pietro si sono mai davvero rivisti fuori dagli studi di Cinecittà, magari in qualche serata in discoteca dove venivano ricoperti di soldi in nero per presenziare pochi minuti, soldi che quasi tutti hanno dichiarato di aver buttato via in pochissimo tempo per cose inutili: aerei privati, vestiti costosi, alberghi di lusso.
Nessuno di loro aveva la lungimiranza calvinista di dedicarsi all’accumulo, niente ascesa intramondana per i risparmiatori del successo lampo, il futuro era in quel momento e se hai vent’anni e l’Italia ai tuoi piedi, se persino Alessandro Cecchi Paone ti sbraita addosso al Telegatto per dirti quanto la tua gloria sia sporca e momentanea, che senso ha risparmiare? Meglio godersela per bene.
Salvo però, finita la sbornia post Gf, diventa un imprenditore: apre una serie di pizzerie in giro per l’Italia, si dedica alla sua famiglia, alla famosa Giusy, la compagna che invocava nelle notti funeste sotto l’occhio indiscreto delle telecamere a infrarossi.
Salvo mette la testa a posto e diventa un business man, investe nell’avanguardia della pizza a domicilio: in Brianza, ti consegna la pizza col drone. Per fare grande ritorno nella casa più spiata d’Italia, si presenta uguale a vent’anni prima, con i capelli ossigenati, il pizzetto nero, lo sguardo malandrino e le sopracciglia ad ali di gabbiano.
Solo che non è più quello di una volta, le espressioni di sfida e sfacciataggine che si perdonano a un ventenne verace e simpatico sono diventate le rughe di un quarantenne arrabbiato verso un sistema che lo ha digerito e sputato via troppo presto.
«Ho in piano qualche fiction» dice sempre durante quell’intervista alla tv privata, ma il suo destino non è sul palcoscenico, né dietro a una telecamera, bensì davanti al forno ardente di una catena di pizzerie che apre in giro e dà in gestione ad altri.
Così Salvo varca di nuovo quella soglia, probabilmente con le migliori speranze, convinto di poter dare una lezione a questo nuovo che avanza, a questi straccioni di Instagram che elemosinano un po’ di follower su Canale 5.
Ma va tutto malissimo, nel peggiore dei modi possibili, come diceva Ovidio: «Turpe senex miles, turpe senilis amor», ma ancora più turpe è vedere un quarantenne che gioca a fare il ventenne in un mondo che non gli appartiene più, un universo di cui non conosce i codici e di cui ha ormai solo una vaga, sbiadita memoria.
Il martire
C’è un motivo se le vere rockstar muoiono a 27 anni, se Taricone è rimasto Taricone, il simbolo di un Grande Fratello sano, ingenuo, infantile, pulito.
Salvo ha deciso di ripercorrere quei passi ed è inciampato rovinosamente sulla sua stoltezza: nella finta intimità di una stanza appartata, commenta con i compagni d’avventura – tutti ex gieffini che si stanno dando una seconda, tristissima chance – le vesti di una giovane concorrente abbondantemente rifatta e piuttosto volgare, dicendo che l’avrebbe massacrata, che le avrebbe spezzato la colonna vertebrale in un impeto di passione: «Quella è da scannare».
Signorini, il maestro di cerimonie, non tollera una tale sfacciataggine, non fin quando il padrone di casa è lui. Alfonso, a differenza di Salvo, sa cos’è lo Zeitgeist e sa molto bene che, nel 2020, è molto più succulento andare contro a qualcuno che insulta le donne piuttosto che sottolineare la malizia bricconcella delle sue parole.
Fosse successo anche solo cinque anni prima, probabilmente sarebbero stati dedicati una decina di blocchi all’ormone implacabile e ringalluzzito del pizzaiolo col pizzetto, magari mettendolo anche alla prova in qualche sfida sexy tra docce bollenti e minuscoli perizomi.
Salvo purtroppo è stato sfortunato, il caso ha voluto che il suo ritorno sugli schermi della televisione coincidesse con questa ondata di moralità farlocca che si dipinge sul volto due righe di rossetto: una toppa sul danno già fatto.
Insomma, Salvo viene cacciato, costretto a scusarsi, la contritio cordis ai tempi dell’ipercomunicazione, deve dirsi pentito e costernato per il gigantesco errore che ha commesso, ossia mostrarsi esattamente per ciò che è, un becero uomo medio, quello che un tempo veniva esaltato per la sua semplicità goliardica.
Il martire di quella edizione del Grande Fratello Vip è colui che, essendo stato protagonista della forma più alta e incontaminata del reality, ha peccato per essere stato troppo vero. Non so con quale poster sia stato sostituito il volto di Salvo Veneziano in questi vent’anni trascorsi nel piccolo altarino che idolatrava la normalità della stanza di Agata, né so quanti altri miti si sono susseguiti nel suo cuore nelle decine di edizioni successive del Grande Fratello.
Il testo è un estratto da libro di Alice Valeria Oliveri, Sabato champagne (Solferino 2023, pp. 320, euro 18,50)
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