Il segreto è il più semplice del mondo: non andare a raccogliere la palla quando finisce qualche metro più in là, fuori dalla piazza. Non rincorrerla, ma chiamarla, «pallaaaa!» e allora il gioco è fatto, perché da ributtarla in mezzo a chiedere di giocare è un attimo, e magari in quel caso non sarà Borges (ricordate? «Ogniqualvolta un bambino prende a calci qualcosa per strada lì ricomincia la storia del calcio»), cioè un nuovo inizio per il pallone, ma un nuovo inizio per la società, per la socialità, beh, questo sì. A Reggio Emilia, da marzo a ottobre, un centinaio di persone si è ritrovato così, d’un tratto, catapultato in una partitella di strada, anzi per la precisione di piazza, perché tra Piazza Martiri del 7 luglio – quella dedicata ai Morti di Reggio Emilia – e Piazza della Vittoria, tra il teatro Valli e il teatro Ariosto, è accaduto proprio questo: è rinato il calcio di strada, tra i passanti, con i passanti, almeno quelli che un attimo di tempo ce l’avevano e non hanno resistito. Perché a una cosa così non si resiste.

Un progetto sociale

Si tratta di un progetto sociale nato da un’idea di Simone Ferrarini, street artist e animatore culturale che due anni fa, era il 2022, propose proprio questo per partecipare, assieme a un consorzio di cooperative sociali, a un bando della Fondazione Pietro Manodori (bando Welfare 2022, sezione Giovani Protagonisti): giocare a calcio in strada. Ecco allora la collaborazione tra Consorzio 45, Consorzio Romero, Giro del Cielo e Inside Migration, le idee di coinvolgimento di Ferrarini, del collega Youness Nazili e di Agnese Spinelli, il nome del progetto, intitolato Leva Calcistica, e il finanziamento, forse inaspettato. Il punto era proprio questo: non una squadra vera a mostrarsi in piazza, ma una piazza vera a costruire una squadra raccogliticcia ma originale, figlia dell’incontro e del coinvolgimento, della condivisione del gioco da parte di persone di qualunque età e diversa estrazione sociale, in una relazione nella quale il calcio era solo un pretesto, ma il pretesto giusto.

Del resto, è un po’ il concetto che Diego Maradona rese in maniera decisamente evocativa quando, un giorno, disse – più o meno, ma è il pensiero che conta – che anche vestito di bianco a un matrimonio avrebbe stoppato senza pensarci un pallone infangato. Chi risponde all’invito di cui sopra, «pallaaaa!», è dentro. E, in quel gruppo eterogeneo c’è di tutto: il signore di una certa età che parla in dialetto, il figlio di migranti nato in città, quello che in città ci è arrivato con la sua storia e a proprio modo, ragazzini e meno giovani, lavoratori in pausa, persone comuni insomma, tra i quali può capitare di trovare una calciatrice del Sassuolo femminile o un idolo della Reggiana che fu, Dario Morello, perché tra coloro che sono stati chiamati nella co-organizzazione c’era anche la sua Morello Football School. «La cosa fondamentale – racconta Ferrarini a Domani – non è tanto che chi è dentro sappia giocare a calcio, ma che sia sveglio, empatico e abile nell’agganciare gli altri in una piazza centrale dove passano tutti, e dove Morello era una sorta di garante: essendo conosciuto, chi lo vedeva giocare in piazza si convinceva facilmente a entrare nella mischia. Se c’è lui, posso andarci anch’io, ed ecco fatto. Laddove si fanno megaprogetti, la prossimità può nascere anche solo da un pallone».

Ora, il punto è che, in questa contemporaneità di gente che vive l’aggregazione come un problema, giocare in piazza non si può. Leva Calcistica, in possesso di tutte le autorizzazioni, ha riaperto un mondo, e lo ha fatto in una ventina di occasioni, mai annunciate, estemporanee nei tempi ma studiate nei modi.

Come funziona? Un pallone, qualche palleggio, un primo torello, la palla lasciata sapientemente uscire dal primo gruppetto, e di lì l’invito a giocare, giusto per fare due calci, a coloro ai quali rotolava accanto. Il resto viene da sé, e dai due calci si passa alla partitella, informalissima (qualche dischetto colorato a terra per delimitare le porte, linee laterali a sentimento, e a volte sono spuntate anche le casacche, per riconoscersi meglio), e alla fine della partitella, ecco una sorta di terzo tempo, a raccogliere storie su di una panchina, a riconoscersi tra persone che per qualche decina di minuti, o qualche ora, sul lastricato di una piazza che non è nemmeno pari, con i giubbotti lasciati a terra e tra rimbalzi anche irregolari, hanno realizzato una squadra. Che poi è un’idea di società.

© Riproduzione riservata