Ripercorrere le opere del filosofo scomparso martedì a 87 anni resta un’“avventura della differenza” che testimonia di un travaglio fortemente vissuto, strettamente intrecciato alla storia di tutti noi e che va oltre la “sigla” che l’ha reso famoso
Gianni Vattimo è morto a quarant’anni di distanza dalla pubblicazione di un libro a più voci – ma a cui lui aveva dato l’intonazione dominante – che per molto tempo è rimasto associato al suo nome come un marchio di fabbrica, Il pensiero debole, Feltrinelli.
In realtà, nell’introdurre quel pamphlet insieme all’amico Pier Aldo Rovatti, gli autori avvertivano che l’espressione era da intendersi solo come una metafora e non sarebbe potuta diventare mai «la sigla di qualche nuova filosofia». Due anni fa, le opere di Vattimo sono state raccolte in un corposo volume curato da Antonio Gnoli e Gaetano Chiurazzi, con il titolo di Scritti filosofici e politici, La nave di Teseo. Basta sfogliarlo per rendersi conto di quanto il pensiero di Vattimo non sia riducibile a quella “sigla”.
L’influenza di Gadamer e Rorty
A Vattimo, poi, dobbiamo anche l’introduzione, nel nostro panorama filosofico, del capolavoro di Gadamer, Verità e metodo, Bompiani e del libro più influente di Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani. Due autori entrambi significativi per ricordare l’atmosfera di quegli anni (gli anni del “postmoderno”), ma anche per avvicinarsi al pensiero di Vattimo. Gadamer, insieme a Pareyson – che di Vattimo fu maestro– e a Ricoeur erano i rappresentanti di spicco dell’ermeneutica filosofica, mentre Rorty era diventato il più brillante rappresentante del cosiddetto “neopragmatismo”.
Che relazione c’era tra queste due proposte? L’ermeneutica aveva radici antiche nella teoria dell’interpretazione della Bibbia e nel pensiero romantico, ed era stata ripensata da Heidegger, maestro di Gadamer e uno dei principali interlocutori di Vattimo.
Con il “neopragmatismo” di Rorty l’ermeneutica aveva in comune il rifiuto di ogni pensiero che pretendesse di poggiare su un fondamento, che fosse Dio, la coscienza soggettiva, una struttura impersonale o la realtà oggettiva. La cosiddetta “metafisica occidentale” (grosso modo, tutta la tradizione filosofica, da Platone al Novecento) aveva preteso di sapere troppo, di stabilire imperativi morali o criteri di verità ingiustificabili.
Bisognava invece riconoscere che il pensiero non ha un terreno solido su cui poggiare, ma è inesauribile re-interpretazione della tradizione. Per questo Gadamer rivalutava il ruolo dei pregiudizi – che la ragione illuminista aveva preteso di poter smascherare – indicandoli invece come “luoghi comuni” imprescindibili per il pensiero, che occorreva riprendere e reinterpretare.
D’altro lato, il “neopragmatismo” proposto da Rorty vedeva nella filosofia un genere letterario tra gli altri: nessuna teoria della rappresentazione “corretta” del mondo, della scienza o della conoscenza, ma il dipanarsi di una conversazione ironica, democratica, solidale e sempre legata a un contesto specifico. Pretese universali sono impossibili, l’etnocentrismo è inevitabile. Sarebbe illusorio, infatti, pretendere di trascendere le nostre pratiche per collocarle in orizzonti di senso ulteriori.
Entrambe queste prospettive erano esempi di “indebolimento” del pensiero. Vattimo, da parte sua, sosteneva che non bisognasse tentare di “superare” la “metafisica occidentale”, perché ogni tentativo in questo senso avrebbe inevitabilmente riproposto qualche altro fondamento, vero o autentico, che si sarebbe celato “al di sotto” o “al di là” delle apparenze o degli “errori” della metafisica.
Lo stesso Essere heideggeriano – il cui “oblio” starebbe nel nostro esserci ridotti a un commercio esclusivo con “enti” determinati, che siano l’Ente supremo o gli oggetti delle scienze – non andava inteso come un terreno più profondo su cui collocarsi, ma come qualcosa da riprendere-distorcere: in termini heideggeriani, non un superamento (Überwindung) della metafisica, ma una sua ripresa-distorsione (Verwindung). La “morte di Dio” – il venir meno di ogni garanzia trascendente, il nichilismo – non assumeva in questo quadro alcun tono tragico, ma era anzi il liberatorio venir meno di perni o ancoraggi del pensiero autoritari, un’apertura a un’“erranza” sgravata dal peso dell’errore.
Imprescindibile
Per il dibattito filosofico degli anni Ottanta, il nome di Vattimo era imprescindibile: si leggevano con passione i suoi articoli su quotidiani e settimanali, si discutevano i suoi libri e gli autori da lui rivisitati in modi chiari e originali (a cominciare da Nietzsche e Heidegger). Mentre i suoi libri venivano tradotti in tutto il mondo, la sua idea secondo cui l’ermeneutica era diventata la koinè della filosofia contemporanea suscitava ampie adesioni e qualche ferma resistenza. È vero, il “pensiero debole” non poteva diventare la sigla di una nuova filosofia. Lo stesso volume che portava quel titolo era un insieme di saggi eterogenei. Tuttavia, è innegabile che tra gli anni Ottanta e Novanta quella sigla coglieva bene un’atmosfera, uno stile di pensiero, una tonalità prevalente.
Il lavoro di Vattimo non si è certo fermato a quegli anni. Ma è inevitabile chiedersi cosa sia rimasto di quella koinè. Ecco: sembra che sia passato un secolo. L’idea stessa che quella leggerezza, quell’indebolimento di veri o presunti fondamenti forti del pensiero potesse portare a un’emancipazione – per vie alternative rispetto al marxismo, alla teoria critica francofortese o alla ragione erede dell’illuminismo – si è dimostrata illusoria. Lo stesso Vattimo è approdato, negli ultimi anni, a prospettive diverse, racchiuse nella formula, ancora una volta sorprendente, di “comunismo ermeneutico”. Un’ermeneutica interessata non più tanto alla ripresa-distorsione dell’eredità della metafisica occidentale, quanto al mondo dei vinti e degli esclusi, per questioni di genere o di classe, economiche o geografiche.
Una lunga fiammata
Quella koinè ermeneutica di cui Vattimo è stato un protagonista appare ora, col senno di poi, una fiammata, una lunga fiammata, che sembra tuttavia esaurita.
Da un lato, ha certamente contribuito a incenerire ogni pretesa dogmatica e reazionaria di voler trovare fondamenti presuntivamente “naturali” per giustificare o fondare comportamenti e ordini sociali. Nella natura, si sa, è possibile trovare un ordine, ed “estrarne” regole e leggi, ma solo perché la natura ospita uno straordinario numero di ordini e di comportamenti.
Eleggerne uno a ordine “naturale” è ridicolo e pericoloso. E pensare di cogliere la natura a prescindere dal suo intreccio inestricabile e originario con la cultura è una pretesa assurda. Ogni tanto, a dire il vero, rispuntano ancora tentativi, più o meno raffinati, mossi forse da una certa nostalgia di assolutezza, che non identificano più l’assoluto in un ente supremo, ma in una relazione con la natura o con le cose. Una relazione, però, che tenta di autocancellarsi: un desiderio di relazionarsi al mondo senza relazionarsi a questo stesso relazionarsi... Sciolti, “ab-soluti” da ogni correlazione.
D’altro lato, credo sia difficile sostenere ancora una visione della filosofia occidentale come un blocco compatto, “la metafisica occidentale”, dato che ogni filosofo significativo sfugge a queste maglie classificatorie, troppo grossolane e un po’ mitologiche. Molte mode filosofiche effimere nascono dalla mancanza di confronto con chi, nel passato, ha pensato a fondo problemi che ancora ci riguardano, a prescindere dall’inevitabile stile culturale o dalle convinzioni personali, magari antiquate o inaccettabili, con cui quel pensiero è intrecciato. Un conto sono le convinzioni personali, altro il pensiero, ed è proprio un’interrogazione genuina che ci permette di distinguere le due cose, non una rielaborazione-trasformazione dei pregiudizi.
Anche se dalla cultura non si esce – ci siamo immersi – non tutto è riconducibile a un piano culturale. Sarà necessario, per esempio, porsi sempre di nuovo la domanda sulle condizioni di possibilità di una cultura, che non possono essere a loro volta solo linguistico–culturali. Come altrettanto discutibile si è rivelata nel tempo la distinzione netta tra il moderno e il postmoderno, non solo perché il postmoderno è stato retrodatato da alcuni addirittura a Kant, ma anche perché è intessuto di problematiche già moderne.
Ripercorrere le opere di Vattimo – una persona gentile, un virtuoso dell’understatement, che nell’unicità della sua vita ha vissuto con passione molte vite – resta un’“avventura della differenza” che testimonia di un travaglio fortemente vissuto, strettamente intrecciato alla storia di tutti noi.
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