La crisi ambientale, le disuguaglianze, la bassa crescita. Sono i tre temi chiave segnalati nel manifesto per la nascita di “Rosa Rossa”, associazione culturale progressista che si propone di «aiutare a riorientare il dibattito su quelle che devono essere le priorità delle forze di sinistra in un grande paese avanzato»
Per riformare e migliorare la società bisogna partire da come la realtà è, non da come vorremmo che fosse. Vogliamo segnalare tre temi, di enorme importanza, sui quali i dati e gli studiosi ci dicono cose ben diverse da quelle che si ripetono da anni nel dibattito italiano.
Primo, la crisi ambientale. Sappiamo che sta procedendo a un ritmo più rapido del previsto e che abbiamo pochi anni per evitare la catastrofe: è la più grande questione del nostro tempo e si decide adesso. Sappiamo anche che sono necessarie politiche, di mitigazione e adattamento, ben più incisive di quelle messe in campo fino a ora.
L’Italia è uno dei paesi più colpiti: oltre che per ragioni climatiche, a causa della nostra densità abitativa e la fragilità del territorio, aumentata dalla cementificazione sconsiderata; per i molti chilometri di costa, che subiscono l’innalzamento dei mari; perché la nostra area più produttiva e densamente popolata, la pianura padana, è fra le più inquinate del mondo avanzato; perché siamo un naturale paese di approdo dei migranti ambientali che fuggono dalla desertificazione dell’Africa; e perché il nostro stesso territorio è soggetto alla desertificazione.
Ma rispetto ad altri paesi europei, noi avremmo anche maggiori benefici dalla conversione energetica e dalle fonti rinnovabili: perché abbiamo molto più sole, potenziale eolico, geotermico, mentre importiamo fonti fossili a caro prezzo; infine, perché abbiamo diverse imprese sia pubbliche che private ben posizionate su questa frontiera tecnologica.
Secondo, le disuguaglianze. Negli ultimi decenni, mentre si sono ridotte su scala globale, sono cresciute all’interno di molti paesi, in particolare in Italia, e contribuiscono alla crisi delle democrazie. Il loro aumento si deve, oltre che alle conseguenze di una globalizzazione commerciale mal gestita (che pure, in altri continenti, ha contribuito a fare uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà), a una globalizzazione finanziaria incontrollata, che ha favorito i paradisi fiscali e tolto agli Stati risorse per realizzare politiche di redistribuzione.
L’Italia è uno dei paesi con le più alte disuguaglianze di reddito dell’eurozona e lo è ancor di più se consideriamo le disuguaglianze di genere e geografiche. Siamo uno dei paesi con la più alta incidenza di lavoratori poveri e (con la Grecia) quello in cui il reddito dei figli dipende maggiormente da quello dei genitori; e siamo uno dei paesi con il carico fiscale maggiormente squilibrato a favore della rendita di capitali, di immobili e sfavorevole al lavoro dipendente; e infine per la più alta evasione fiscale.
Le disuguaglianze da noi sono talmente elevate che colpiscono la capacità di crescita, dato che bloccano l’ascensore sociale e impediscono quindi di realizzare il potenziale di ogni persona: in Italia lavora ancora solo una donna su due e, nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione femminile è 30 punti sotto la media europea.
Terzo, la bassa crescita dell’Italia. Si deve, indubbiamente, alla bassa produttività. Questa però dipende dalla mancanza di una politica industriale nazionale, dall’uso non strategico dei trasferimenti alle imprese, infine dalla specializzazione produttiva in settori a modesta innovazione tecnologica; settori caratterizzati da piccole e piccolissime imprese, che fanno fatica a innovare e richiedono poco capitale umano, e da poche grandi imprese pubbliche che difficilmente costruiscono un approccio sistemico.
Siamo il paese con la più bassa percentuale di laureati nel mondo avanzato e, per giunta, quello con la maggiore emigrazione di persone istruite: la via sicura per il declino. Il problema è reso acuto anche dal fatto che l’Italia ha privilegiato come modello competitivo (peraltro fallimentare) la flessibilità e la svalutazione del lavoro.
Negli ultimi trent’anni i salari reali sono rimasti al palo, come quelli del lavoro qualificato, ben più che in tutto il resto d’Europa, mentre il lavoro è stato precarizzato più che nella media europea. Queste politiche però non sono servite a evitare il declino. Anzi, sono in parte responsabili della stagnazione della produttività e della crescita, perché hanno dato al sistema gli incentivi sbagliati.
Che fare? Le tre questioni vanno affrontate insieme, delineando una strategia che, contrariamente a quel che si crede, ha molti più benefici che costi. L’innovazione tecnologica e gli investimenti legati alla transizione verde sono un’opportunità per rilanciare la produttività del nostro Paese e per favorire la buona occupazione. L’universalità dei servizi pubblici è cruciale per abbattere le diseguaglianze e anche per promuovere lo sviluppo: si pensi all’istruzione, dagli asili all’università, o all’importanza di ricerca e innovazione nel settore sanitario.
La ricerca deve ritrovare il ruolo che ha giocato negli anni della grande crescita del Paese attraverso l’impegno strategico e sistemico delle imprese pubbliche, in sinergia con quelle private; reti trasversali sul territorio nazionale devono fare incontrare la ricerca con il mondo delle piccole e medie imprese (come fa la Germania con la Fraunhofer-Gesellschaft).
Sono necessarie politiche fiscali che favoriscano la crescita delle imprese e degli investimenti e non premino le rendite. Occorrono politiche che sostengano il lavoro qualificato e ben pagato, rafforzando il ruolo dei sindacati, proteggendo i lavoratori, introducendo finalmente il salario minimo. Va riconquistata in questo modo una cultura di valori etici e di giustizia sociale, su cui fondare la partecipazione democratica.
Ci sarebbero molti altri esempi, ma crediamo di aver reso il concetto. Il dibattito politico-culturale deve essere riavviato sui problemi più importanti del nostro tempo. Per le forze di sinistra, la sconfitta elettorale del 2022 discende in parte proprio dall’incapacità di proporre una cultura progressista, unificante, che sappia legare questi temi e appaia «vincente».
È per questi motivi che, con decine di studiosi di discipline e competenze diverse abbiamo deciso di dare vita a un’associazione culturale progressista, “Rosa Rossa”: per aiutare a riorientare il dibattito su quelle che devono essere, oggi, le priorità delle forze di sinistra in un grande paese avanzato, raccordandoci anche con le altre associazioni di sinistra diffusa e di elaborazione culturale che vi sono in Italia. Con l’ambizione di contribuire a ricostruire un ponte fra mondo intellettuale e società civile, mondo dell’informazione e politica. La ricostruzione di questo legame è la premessa per cambiare in meglio l’Italia.
Emanuele Felice, Valeria Termini, Filippo Barbera, Gianluca Busilacchi, Nicolò Carboni, Luciano Cerasa, Caterina Conti, Alfredo D’Attorre, Simone Farello, Marianna Filandri, Pietro Galeone, Alessandro Melcarne, Enrica Morlicchio, Rossella Muroni, Laura Pennacchi, Giuseppe Pisauro, Andrea Roventini, Pasquale Terracciano, Michelangelo Vasta, Nadia Urbinati (il Direttivo della Rosa Rossa).
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