Nella dottrina cattolica c’erano una volta i «novissimi». Il primo a sottolinearne la centralità e la dimenticanza fu Paolo VI negli anni turbolenti del post-concilio. Chi ne parlava era Joseph Ratzinger, fin dal suo primo corso di lezioni nel 1957 a Friburgo. Vent’anni dopo, nel 1977, pubblicò Escatologia. Morte e vita eterna, considerato dal futuro papa la sua opera «più elaborata e accurata».
Nella dottrina cattolica c’erano una volta i «novissimi». Il termine, derivato dal latino medievale, è un aggettivo che significa ultimo, e indica le quattro «ultime cose»: morte, giudizio, inferno, paradiso. Realtà ormai abbandonate dalla predicazione o tutt’al più accennate di sfuggita, come talvolta avviene in novembre, mese dedicato tradizionalmente alla memoria dei defunti. Dunque a riflettere sulla propria vita, mentre si conclude l’anno liturgico e si apre il tempo dell’Avvento, che evoca anche l’attesa del ritorno finale di Cristo.
Ad affrontare il tema dei novissimi, sottolineandone la centralità e la dimenticanza, fu Paolo VI in una delle udienze generali durante gli anni turbolenti del post-concilio. Per questi incontri il papa preparava personalmente i discorsi, di cui si conservano i manoscritti, e l’8 settembre 1971 il pontefice trattò dell’escatologia: «parola strana» che significa «scienza delle cose ultime» e che non solo ricorre in tanti documenti del Vaticano II, ma che – affermò Montini – «domina tutta la concezione della vita cristiana, della storia, del tempo, dei destini umani oltre la morte»; eppure «dei novissimi pochi parlano e poco».
Chi ne parlava, e da molto tempo, era Joseph Ratzinger, che al concilio si era affermato come brillante consigliere teologico del cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia e autorevole esponente dell’ala riformatrice. «Se appartenere alla chiesa ha un senso, esso consiste semplicemente nel fatto che questa appartenenza ci dà la vita eterna e, quindi, la vita giusta e vera. Tutto il resto è secondario» avrebbe poi sintetizzato Ratzinger, ormai cardinale alla guida dell’antico Sant’Uffizio, al giornalista Peter Seewald.
Il metodo Ratzinger
Del tema il trentenne teologo bavarese si era occupato fin dal suo primo corso di lezioni, nel 1957 a Friburgo. Finché vent’anni dopo, nel 1977, pubblicò Escatologia. Morte e vita eterna, che suscitò soprattutto in Germania un acceso dibattito. Di continuo ristampato e tradotto in sette lingue (in Italia da Cittadella Editrice), il libro è stato considerato da Ratzinger la sua opera «più elaborata e accurata». Alla sesta edizione l’autore ha aggiunto due appendici e per l’ultima del 2007 – papa da due anni – ha scritto una nuova prefazione.
Mentre all’inizio del 1977 andava in stampa il libro sull’escatologia, Ratzinger venne nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga da papa Montini, che tre mesi più tardi lo creò cardinale. Era la svolta decisiva nella vita del futuro Benedetto XVI: si chiudeva infatti la sua vita universitaria e iniziava il tempo dell’episcopato nella metropoli bavarese. Seguirono nel 1982 il trasferimento a Roma come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e nel 2005 il pontificato, fino alla rinuncia nel 2013.
L’Escatologia resta il frutto più maturo della ricerca di Ratzinger, che era ben consapevole di andare controcorrente. «Avevo tentato – spiega infatti il teologo cinquantenne nella premessa alla prima edizione – di costruire un’escatologia “de-platonizzata”», ma dalla lettura delle fonti durata un ventennio si è imposta «la logica interna alla tradizione ecclesiale». Con un risultato che «si colloca adesso in una direzione opposta ai miei primi tentativi di allora, una direzione che contraddice l’opinione dominante in tutti i suoi aspetti», imboccata però non per «spirito di contraddizione ma costretto dalla cosa stessa».
In queste parole c’è tutto il metodo di Ratzinger, radicato nelle fonti ma altrettanto attento al dibattito contemporaneo – teologico, filosofico e scientifico – e anche a tradizioni religiose orientali. Su un tema molto controverso perché in ambito cattolico, dopo aver condotto per secoli «un’esistenza tranquilla», la dottrina sulle cose ultime si è trasformata in un «focolaio di disordini», secondo la definizione del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar. Così, sotto l’influsso soprattutto del pensiero marxista, la speranza è divenuta politica, mentre al contrario per Ratzinger non deve essere ridotta «a nessun tipo di teologia politica».
Ma più radicalmente si è letta la Bibbia «prescindendo dalla tradizione»: si è così sostenuto da una parte che nelle Scritture ebraiche e cristiane non si trova l’immortalità dell’anima, ritenuta un concetto platonico, e dall’altra si è ipotizzata una risurrezione nel momento stesso della morte. La discussione e la contestazione puntuali di queste ipotesi da parte di Ratzinger – per il quale «l’anima non è nient’altro che la capacità da parte dell’uomo di stare in relazione con la verità, con l’amore eterno» – hanno suscitato un ampio e vivace dibattito, con la conseguenza di avvicinare posizioni che sembravano inconciliabili.
Illuminante è il metodo di analisi condotto da Ratzinger sui testi biblici. La sua interpretazione tiene infatti conto di alcuni tra i maggiori biblisti e dei teologi contemporanei: Karl Barth, Rudolf Bultmann, Oscar Cullmann, Charles H. Dodd, ma anche di «singole pepite d’oro» nelle «varie teologie della liberazione e della rivoluzione». Il teologo prende però in esame l’«intera storia dell’esegesi», proprio come il sapere filosofico non deve prescindere da Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino, «autentici protagonisti di un continuo approfondimento delle cose. Nessuno di essi è la personificazione della filosofia o il filosofo» scrive Ratzinger, ma dalla intera storia della filosofia «si rivela la verità e nasce contemporaneamente la possibilità di nuove conoscenze».
Interpretazioni e dibattiti
Con questo metodo impegnativo Ratzinger ridimensiona l’imminenza della fine del mondo che secondo molte interpretazioni moderne sarebbe stata centrale nella predicazione di Gesù. Il suo annuncio del «regno di Dio» è infatti «improntato a un senso di continua attualità e non è legato né a luoghi né a tempi» perché si realizza in Gesù, che è lui stesso il regno (autobasilèia), secondo una «bella espressione» di Origene, uno dei maggiori pensatori cristiani dell’antichità.
Di fronte alla morte, il primo dei novissimi, la società contemporanea è contradditoria: se da una parte la considera un tabù – nascondendola o cercando di controllarla tecnicamente con l’eutanasia – dall’altra la esibisce come spettacolo. In questo modo la morte viene «privata del suo carattere di apertura metafisica e la sua banalizzazione dovrebbe arginare la domanda inquietante che da essa scaturisce» scrive Ratzinger, che ricorda come Schleiermacher abbia parlato «della nascita e della morte come di “spiragli” attraverso i quali lo sguardo dell’uomo intravede l’infinito».
Secondo le Scritture ebraiche «la comunione con Dio significa vita oltre la morte» e questa comunione è «vera realtà, più reale pure della morte», secondo «un’idea che non deriva né da modelli greci né da modelli persiani». In continuità si colloca la tradizione cristiana. Ma il Nuovo Testamento introduce «la novità determinante» della testimonianza e della resurrezione di Gesù, che peraltro in contrasto con la classe sacerdotale sadducea condivide sulla resurrezione dei morti la dottrina dei farisei quando – nel vangelo secondo Marco (12,27) – afferma «non è Dio dei morti ma dei viventi». Punti cruciali, molto dibattuti e interpretati fino alla negazione, riguardano la «sopravvivenza dell’uomo tra la morte e la resurrezione» finale, cioè la resurrezione dei morti (o della carne). In proposito Ratzinger esamina, oltre i dati biblici, tradizioni apocrife ebraiche, concezioni religiose orientali, discussioni teologiche antiche e moderne, e dimostra che sono realtà, compreso lo «stato intermedio» di purificazione denominato nel medioevo «purgatorio». Ma avverte che «il messaggio della fede non ha lo scopo di alimentare una pura curiosità» nell’aldilà, bensì di orientare la vita nell’aldiquà in attesa del giudizio di Dio.
Così il dogma dell’inferno «conserva il suo contenuto reale», accompagnato nei secoli da un concetto della misericordia che, da Origene in poi, gli oppone una speranza: ipotesi fondata misteriosamente sulla discesa di Cristo che, crocifisso e morto, «si reca nell’inferno e lo svuota mediante la propria sofferenza». Così il paradiso, che è anch’esso «determinato dalla cristologia», perché «l’uomo è in cielo quando e nella misura in cui è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio». Allora – conclude Ratzinger – anche «l’intero creato sarà un “cantico”, un gesto con cui l’essere si libera nel tutto e insieme un entrare del tutto nel proprio, un gaudio in cui tutte le domande avranno risposta ed esaudimento».
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