In Schermare le paure (Bompiani), Francesco Casetti racconta i piaceri e i rischi dei media moderni, dalla Fantasmagoria ottocentesca al cinema del secolo scorso, fino alle odierne bolle digitali, invitandoci a non temere la realtà da cui ci separano.
Quando si ama, secondo il più influente trattato europeo su tale condizione, non bisogna farlo sapere. Andrea Cappellano, dalla corte non ancora dugentesca di Maria di Champagne, ci avverte chiaramente, nel suo latino medievale: per risultare fine e onesto, l’innamoramento deve restare celato. Non represso o negato, ma protetto: proiettato in uno spazio virtuale, magari letterario, segreto e sicuro, in cui può germogliare.
Per osservare questo precetto, come Leia in Star Wars quando bacia Luke nascondendo la sua passione per Han Solo o Hermione in Harry Potter quando va al ballo coll’atleta bulgaro occultando i suoi sentimenti per Ron, trovatori e poeti hanno adottato la soluzione di fingere d’amare una certa donna per non esibire chi amavano davvero.
Nei manuali di letteratura – per esempio al capitolo sulla Vita nuova di Dante – ci riferiamo a tali donne protettive, su cui si proiettarono le onorevoli finzioni dei rischiosi struggimenti degli ingegni più innamorati d’Occidente, con un termine oggi straordinariamente rilevante: schermo.
Schermare le paure
“Schermo” è senz’altro la parola del secolo – di questo secolo intendo, e forse anche di quello scorso – ma l’euforia tecnologica ci porta a dimenticare che schermare non significa estendere, espandere, aprire una finestra su qualcosa di altrimenti invisibile. Significa, come ci ricordano Dante e Cappellano, frapporre tra sé e quel che si guarda un’interruzione, una barriera.
Le donne dello schermo ispirate dai trattati sull’amore mi sono tornate in mente amando, mentre lo leggevo, un nuovo trattato, che mi pare definitivo, sugli schermi; Schermare le paure: I media tra proiezione e protezione di Francesco Casetti (Bompiani). È uno di quei libri che, una volta letti, t’impediscono di tornare alla vita quotidiana (alla preparazione di una lezione sulla poesia del Duecento, per dire) senza pensare continuamente a quel che hai imparato leggendoli.
Non tratta infatti di remoti medioevi, come potrei aver dato a intendere, ma dei più onnipresenti strumenti attraverso cui interagiamo oggi con la realtà: i media moderni, sorti agli albori della tecnologia cinematografica e rimasti cruciali sino all’apocalittico presente che guardiamo compiersi lungo le timeline animate dei nostri dispositivi portatili.
Cos’è uno schermo
Schermare le paure mi ha fatto pensare all’amore medievale (e alla magia rinascimentale, e all’araldica barocca, e a un sacco di altre cose che distraggono dalla realtà mentre la raccontano) perché sovverte quel che continuiamo a dirci a proposito di quei media.
Non sono, ci mostra Casetti, meri surrogati farlocchi del mondo che vediamo e tocchiamo, né solo imitazioni o protesi sensoriali di esso, ma diaframmi, membrane, filtri che, una volta chiuso quel mondo di là da uno spazio sicuro e governabile, ristabiliscono con le sue immagini un contatto apparentemente meno rischioso.
Prima di essere il Black Mirror della distopica fantascienza anglo-americana che ci inquieta a ogni nuova stagione su Netflix, prima di essere la transitiva babele di Windows cui sin dagli anni Novanta ci ha abituato l’utopica retorica della Silicon Valley, i media dello schermo, come in poesia le donne dello schermo, sono formazioni di compromesso che interrompono, mediandolo, il nostro rapporto con quel che desideriamo conoscere senza esporci direttamente.
È l’ansia sempre più acuta nei confronti di un’esposizione diretta alla realtà, dell’immediatezza (cioè dell’assenza di media tra il sé e l’altro da sé), a caricare lo schermo delle sue funzioni più essenziali: proteggere proiettando, ri-velare ciò che altrimenti andrebbe s-velato.
Il rischio di schermarsi
Come tutti i millennial ho un rapporto un po’ paradossale col mio telefono. Lo uso a ogni ora del giorno ma cerco in ogni modo di evitarne l’originaria funzione primaria, che da esso prende il nome: la telefonata.
È lo schermo a permettermi di fare quel che in inglese si definisce appunto, adoperando la stessa parola che si usa per ‘schermo’, call screening, cioè schermare le chiamate decidendo in base al nome e al numero che compaiono, al momento, e così via, se abbandonare chi mi chiama alla segreteria, differire la chiamata con un messaggio o addirittura bloccare tout court il tentativo di raggiungermi.
Di certo non rispondo mai direttamente, mediando quel contatto nel tempo e nella sostanza verso modalità che mi sembrano più gestibili. Forse perché l’ho letto prima in inglese, lingua più ambigua in cui è uscito qualche settimana in anticipo col titolo Screening Fears (Zone Books), lo studio sui media di Casetti mi ha reso sospettoso nei confronti del conforto che provo schermando i miei contatti telefonici.
Proteggendoci, gli schermi ci offrono infatti l’illusione di un controllo che, d’altro canto, cediamo loro. Nel differimento che ci garantiscono rischia poi di fermentare un’ansia vieppiù minacciosa, che ci spinge ancora più a fondo nel bisogno di ulteriori schermi che la regolino, intrappolandoci in una spirale di mediazione che, invece di fornirci un ormeggio sicuro da cui raccogliere gli strumenti necessari ad affrontare la realtà, diventa più mostruosa e ingestibile della realtà stessa.
Applicando con straordinaria chiarezza la lezione della biopolitica sul potere e la disciplina, Casetti ci ricorda che il conforto della sicurezza esige sempre un prezzo, costrittivo e addirittura oppressivo: una mansuetudine, un’obbedienza produttiva e gerarchica, una sottomissione a chi degli schermi è titolare.
Ma prima di mettermi in guardia sui rischi foucauldiani del “complesso proiezione/protezione” con cui smentisce e rimette in gioco la teoria classica dei media, Schermare le paure me ne ha raccontato la storia. Ed è una storia vertiginosamente dettagliata, sorprendente, che in mano a uno studioso tradizionale avrebbe occupato almeno quattro libri diversi.
Capire per non temere
Sedute spiritiche nelle chiese sconsacrate dell’Europa post-illuministica, brevi clip prodotte nella Factory di Andy Warhol, King Kong, Marx, bombe intelligenti e riunioni in remoto su Meet. Schermare le paure mobilita lo sterminato archivio dell’erudizione del suo autore senza mai perdere di vista l’idea cardine, raccontata col tono appassionante di chi sa di star cambiando per sempre le carte di un gioco intellettuale che ci riguarda tutti, spettatori e spettatrici (quando non utenti) prima che cittadini della realtà da cui ci schermiamo.
Madonna Filosofia, si sa, è la donna dello schermo di Dante. Madonna Teoria è forse il nome di quella di Francesco Casetti, noto come semiologo, teorico della televisione e del cinema appunto ma capace di mettere in questione, con affabile lucidità, anche gli assiomi più inamovibili del campo in cui ragiona.
Al centro di Schermare le paure c’è senz’altro una fine, inedita interpretazione del suo cavallo di battaglia: l’esperienza cinematografica novecentesca. Casetti interroga il presunto comfort della sala, gli involucri architettonici che la contengono, l’estensione e la forma dello schermo che la conclude. Ma la sua sregolata interdisciplinarità non lascia nulla all’astrazione della pura teoria, restituendoci la struttura del cinema alla sua acme come dispositivo ottico-spaziale attraverso un archivio di documenti storici legati alla climatizzazione e ventilazione dei teatri, alla loro pulizia, alla condotta di chi vi lavora (delle maschere in particolare), ai servizi che offrono.
Questo studio filologicamente sorvegliatissimo di come il cinema degli anni d’oro fosse progettato per esonerare dal mondo gli spettatori e premiare la loro sopravvivenza a una realtà assai meno ospitale è preceduto da una reinterpretazione degli spettacoli di Fantasmagoria e seguito da un’analisi delle bolle digitali del ventunesimo secolo, esponenzialmente diffusesi e complicatesi dagli anni della pandemia.
Anche in questi due studi, che articolano la preistoria e la postrema esplosione del freudiano complesso cui il libro è dedicato, Casetti esibisce un prontuario di reperti storici entusiasmante: dalle diapositive ottocentesche al Metaverso di Zuckerberg.
Schermare le paure raffina un’intera vita intellettuale, spesa a ragionare su cosa (ci) fanno i media, nel più urgente e chiaro dei moniti all’età degli schermi. È un affettuoso comando a non temere né la realtà né i dispositivi tecnologici che da quasi tre secoli sviluppiamo per schermarla – giacché studiare, conoscere, capire è sempre il contravveleno più efficace a qualsiasi paura.
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