Ha rappresentato l’altro, il poter essere scomposti, barbari e assoluti in opposizione al mondo perfetto della cattedrale tennistica che è stato Federer. C’ha insegnato la forza e la gioia d’essere più ottimisti di Madre Teresa. La sua forza è stata anche questa intermittenza fisica che ha scatenato una comprensione insolita. Si è consumato più di chiunque altro, ma consumandosi ha riscritto l’idea dello stile, dandoci un altro tennis, più simile al pugilato
L’ultima settimana di tennis giocato da Rafa Nadal è già un film, quello del nostro entusiasmo, perché il tennista maiorchino ha rappresentato l’altro, il poter essere scomposti, barbari e assoluti in opposizione al mondo perfetto della cattedrale tennistica che è stato, è, e sarà Roger Federer, che gli ha pure scritto una vera lettera d’amore, dicendo che l’ha reso umano, battendolo, l’ha riportato a casa giocando un tennis diverso dal serve and volley con tutta la classe possibile e le note a piè pagina di David Foster Wallace e Gianni Clerici.
Perciò questa settimana ha un gusto e un tempo diverso, è una lunga partita a tennis con quello che resta di Nadal, con tutto quello che rappresenta per quanto stropicciato e ansimante. La Coppa Davis diventa l’ultimo metro, l’ultimo servizio, l’ultima palla e soprattutto l’ultimo rovescio a due mani prima dell’addio, tanto che ci vorrebbe Ennio Morricone per punteggiare il macerarsi struggente del Nadal che posa la racchetta, del Nadal che lascia i campi, del Nadal che non rincorre più niente se non la vita, ma senza sudare. Tanto che, davvero come se fosse una serie tivù, c’è già la sua continuazione tennistica: Carlos Alcaraz, ma a noi non basta, perché Nadal era tutto il resto. La seconda epifania dopo Roger Federer.
L’anti Roger
Era l’altra metà, di una pallina. Non è questione solo di Slam vinti, di terra – dove ha primeggiato, come nessuno – erba o cemento, ma di linguaggio, fisico, stile. Da una parte il tennis d’alta moda, da museo, da corte, alto, cristallino, pulito, con i colpi impossibili generati con la semplicità del quotidiano, l’estetica a colazione. Dall’altra, invece, l’energia operaia, la passione da marinai, la frenesia dei rivoluzionari e il furore dei tori che vogliono incornare i toreri. Un disegno – d’opposti – perfetto. Uno pulito, l’altro sporco, di terra s’intende. Per questo Federer lo assiste mentre Nadal completa il suo ciclo sportivo, perché è l’altro sé. Per questo Rafa era la spalla sulla quale piangere mentre l’avversario Roger abbassava la serranda. Perché sono una cosa sola.
Ora si spengono le luci sullo spagnolo, dopo che ha già lasciato tutto ad Alcaraz, un testamento sportivo senza rimpianti, ma poi c’è il rito e in questo caso il rito è una Coppa Davis, a Malaga. Tutti pensano al presente al nuovo mondo e ai nuovi scontri che vedremo: Jannik Sinner contro Carlos Alcaraz, ma prima, c’è ancora un po’ di quell’ombra di gloria del sol di Nadal, mentre tramonta. Barlumi. Schegge. Attimi. E palline. Colpite da un tennista che non conosce soste – se non per infortuni: piede, ginocchia, schiena, polsi, psoas iliaco (anca), appendice, costole, strappi muscolari, ansia. Un lungo elenco di sofferenze. Bisturi, infiltrazioni, riabilitazioni, mentre ci faceva scoprire nomi strani da lezione di anatomia: da Müller-Weiss (scafoide, del piede sinistro) a Hoffa (ginocchia).
Il corpo
Dolore su dolore non macchia come la terra, ma non è andato via facilmente, tormentandolo a lungo. Per questo c’ha insegnato la forza e la gioia d’essere positivi, più ottimista di Madre Teresa. Con dentro l’urgenza e la gioia, sì, di misurarsi per l’ultima volta. Perché Nadal sta al tennis come Giovanna d’Arco all’ardore spirituale. Ha sempre giocato col fuoco dentro, con i bicipiti da bodybuilder e le cosce da ciclista. Una centrale elettrica.
È stato il tormento di Federer («Dio, questo mi sta uccidendo...») e ha aperto la strada a Djokovic, con la sua seconda via, quella della forza e della passione. Nella sua apparente fragilità, il sofferente Nadal, li ha fatti soffrire, opponendosi con la sua capacità di stare in bilico, costruendo un impero sul dritto. Che è una griffe ormai, dovrebbero brandizzarlo.
«È come se un camion ti venisse incontro a 200 km/h», disse il francese Paul-Henri Mathieu, per descrivere la violenza e la velocità del colpo di Nadal. E Andy Murray – il magnifico quarto – disse: «Nadal lancia il braccio contro la palla con una violenza senza precedenti». E con il suo dritto ha scritto, disposto, consumato, condannato e vinto. Il resto l’ha fatto la sua grande capacità mentale dalla quale scaturiva una autodisciplina assoluta paragonabile solo a quella che aveva Björn Borg. Strategia e moto perpetuo, se non intervenivano i malanni. «Se potessi, continuerei ancora a giocare», ha detto.
Un’epoca
La sua ultima settimana è anche l’ultima settimana di una epoca di tennis: 23 anni e 92 titoli, edificati colpo forte su colpo forte. Intorno c’è la febbre di un paese, la Spagna, e del mondo tennistico, che sa che si apre un vuoto, nonostante Alcaraz. La prima grande gioia di Nadal da professionista è stata proprio nel 2004, nella seconda Coppa Davis vinta dalla Spagna, quando eliminò Andy Roddick in finale a Siviglia in una partita chiave contro gli Stati Uniti. Venti anni dopo sappiamo che di tennisti della giungla, ne nasce uno ogni secolo, se va bene. La sua cifra è stata la lotta. Una tempesta di sabbia passata sui campi da tennis. Un tifone con la racchetta, che ora perdendo forza, mulina lentamente, ma continua ad evocare i passaggi passati, generando una malinconia per l’assenza che si sta creando già da un po’: Slam dopo Slam.
La forza di Nadal è stata anche questa intermittenza fisica, l’andare e venire, il perdersi e trovarsi, che ha scatenato una comprensione che di solito il campione non suscita. Si è consumato più di chiunque altro, giocando a tennis, ma consumandosi ha riscritto l’idea dello stile, dandoci un altro tennis, più simile al pugilato. E a 38 anni, comunque venti meno di Mike Tyson, Rafael Nadal ha giocato la prima partita dei quarti di finale di Coppa Davis tra Spagna e Olanda, nel singolare contro Botic van de Zandschulp. Sedici anni dopo la partita che cambiò tutto: quando Nadal vinse a Wimbledon contro Federer e fece cinema. Cambiò anche il cerimoniale inglese, perché trascinò l’incontro fino a sera.
Quell’anno aveva vinto anche a Parigi. E Federer niente, da numero uno. Mai più potrò dimenticare l’erba che mi ha costretto al silenzio, pensò Roger. E adesso che tutto si coniuga al passato, nell’ultima settimana di presente senza nessun futuro possibile, se non l’abbandono di Nadal, tutto è più triste.
L’altro tennis, non è inossidabile, ma si consuma come quello elegante che ormai da due anni manda lettere dalla Svizzera. Si sono misurati all’interno di uno sport complesso e di solitudine, affrontati, vinti, sconfitti, e ora si riabbracciano nella tregua di un divano.
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