Ogni notte Rino imbraccia la macchina fotografica, accende la sigaretta e sale a bordo di una smart nera guidata da Antonella Mastrosanti, sua moglie. Continua a soddisfare la sua passione: fotografare. In sessant’anni di carriera ha messo insieme 162 accessi al pronto soccorso, 11 costole rotte, una coltellata, 76 macchine distrutte, 40 flash sfasciati. «Oggi se non vado a caccia di scatti, smetto di vivere»
Centosessantadue accessi al pronto soccorso, undici costole rotte, una coltellata, 76 macchine distrutte, 40 flash sfasciati e numerose manganellate negli scontri di piazza. In sessant’anni di carriera è rimasto coinvolto in diverse sparatorie tra rapine, terrorismo e cronaca nera. L’ultimo a picchiarlo è stato Gerard Depardieu. Tutto questo per fare ciò che ama di più nella vita: il fotografo. Rino Barillari, 80 anni l’8 febbraio, definito da Federico Fellini il re dei Paparazzi, con i suoi scatti ha raccontato sessant’anni di storia italiana, dalla Dolce Vita all’arrivo di Obama a Roma passando per terrorismo e stragi di mafia. Ma oggi che la società e il mestiere di fotografo sono cambiati, che ne è di Rino Barillari?

Una vita in bianco e nero
Ogni notte Rino imbraccia la macchina fotografica, accende la sigaretta e sale a bordo di una smart nera. Alla guida Antonella Mastrosanti, sua moglie, un passato da giornalista: «Cerchiamo delitti, incidenti, cose così. Io lo accompagno e mi occupo delle sue relazioni. Lui deve solo fare la star». Girano per una Roma decadente senza star del cinema da stanare e conflitti di piazza da documentare. È finita l’epoca del corpo a corpo tra il mondo e Barillari, tra la realtà e la sua macchina fotografica. «Scattare una foto è come premere il grilletto», chiude un occhio e, pollice e indice, spara dritto davanti a sé. Anelli alle dita, fazzoletto nel taschino, giacca gessata, capelli tirati dietro, bianchi con le punte scure. La scelta cromatica della capigliatura e dell’abbigliamento corrisponde alla sua predilezione per il bianco e nero: «A me piace fotografare il sangue. E in bianco e nero il sangue non si vede, è presentabile. C’è il rispetto della morte, di chi è stato ucciso e di chi è rimasto vivo».
La prima macchina usata
Rino Barillari lascia Limbadi, il suo paese di origine in Calabria, e arriva a Roma con la giacca del padre, il cappotto del nonno, le scarpe bucate. È il 1959. Ha 14 anni, pochi soldi in tasca. «All’inizio dormivo per terra a villa Borghese. Poi ho trovato una stanza con tre letti singoli, ma eravamo in cinque». Fanno i turni: chi lavora di giorno dorme la notte e viceversa. Comincia ad aiutare i fotografi che immortalano i turisti a fontana di Trevi. «Un giorno, uno di loro mi chiede di sostituirlo. Mi consegna la sua macchina fotografica». Da quel momento diventerà la sua compagna, la sua arma, la sua ossessione. Con i primi soldi compra una Comet Bencini usata e una pellicola. I primi scatti ritraggono lo spazzino di via Condotti, le sartine di Piazza di Spagna, la guardia notturna di via Veneto in bici. Ed è proprio nella via Veneto degli anni Sessanta che Rino Barillari riscatta le sue origini e diventa «the King of Paparazzi».
Come nasce un Paparazzo
Nel 1960 tra La dolce vita, il film evento di Fellini, i Giochi Olimpici e Hollywood che trasferisce a Cinecittà le sue produzioni, Roma viene invasa da divi del cinema internazionale, produttori, industriali, principi, regnanti: «Via Veneto scoppiava di mondanità: attori, locali, passerelle, hotel, macchine fiammanti». Il giovane Barillari fa pratica al fianco dei paparazzi più esperti come Tazio Secchiaroli, ma sotto traccia. Fa la parte dell’ingenuo: «L’unico modo per rubare il mestiere con gli occhi e non essere temuto in un settore dalla concorrenza spietata». Fotografa le star e vende i negativi alle agenzie. Più la città si riempie di possibilità, più Rino cresce e si scatena. Immortala Nureyev con Kennedy, Hitchcock, Audrey Hepbrun, i Beatles, la Regina d’Inghilterra.
L’arte della provocazione
Ma a Barillari non basta lo scatto: «Quello, lo possono fare tutti. Serve una reazione». Rino allora si apposta, aspetta il personaggio, lo sorprende nella sua intimità, scatta, lui reagisce con violenza, altro scatto che fa subito notizia, scalpore. Come con l’attore Peter O’Toole che, fotografato con l’amante, si fionda su Barillari e gli rompe la macchina fotografica sulla testa: «Finisco in ospedale ma riesco a salvare gli scatti e a venderli». L’attore dovrà pagare un risarcimento milionario al padre di Rino, all’epoca minorenne. Intanto la storia del paparazzo picchiato e ferito fa il giro del mondo. Della provocazione Barillari farà la sua arte.
Dalle star agli scontri
«Alla fine dei Sessanta via Veneto si era svuotata. C’erano le prime manifestazioni. Mi buttavo negli scontri con la macchina al collo. Le prendevo sia dalla polizia sia dai manifestanti». Nel 1968 Rino è in prima linea in tumulti di piazza, occupazioni, scioperi. «Nessuno voleva essere fotografato perché le mie foto potevano essere una prova giudiziaria». Barillari sente il gusto dell’adrenalina quando sale in bocca e sa di paura ed eccitazione. Fotografa con tutto il corpo, non si risparmia, si butta nella società che cambia e con essa lui cambia lo sguardo: ora racconta la lotta per la casa a San Basilio, le manifestazioni studentesche a Campo de’ Fiori, lo sciopero della fame dei detenuti sui tetti del carcere di Regina Coeli. Il bianco e nero si fa drammatico: violento ed estremo negli scuri e luminoso e graffiante nei chiari come il fumo di una molotov sui sampietrini.
Nero come il sangue
Ma è sulla cronaca nera che dà il meglio di sé: «Mi ero fatto amici alcuni delle forze dell’ordine che mi davano soffiate sui fatti». Intercetta anche le frequenze radio degli sbirri e il gioco è fatto. È il primo ad arrivare sul posto: l’attentato di Ağca a Wojtyla, l’arresto di Enzo Tortora, l’attacco terroristico all’aereo Pan Am, l’omicidio di Pasolini. Qui fotografa gli oggetti personali ritrovati addosso allo scrittore: un pettine, un mazzo di chiavi, il tesserino da giornalista, un anello, i jeans sporchi di terra. Nel suo archivio in bianco e nero questa serie spicca: è a colori. Rino fa esplodere cromaticamente gli oggetti della scena del delitto perché restino nel tempo.
In prima linea
Con la sua arma d’inchiesta al collo Rino entra negli anni di piombo. 16 marzo 1978, via Fani, rapimento Moro. Scatta la foto alla pistola e ai proiettili, poi capisce che gli serve un racconto: «Entro nel palazzo di fronte e chiedo alla signora del terzo piano di aprirmi. Dal suo balcone scatto alle macchine trivellate e al corpo per terra». 3 maggio 1979: «Sulle frequenze radio della polizia intercetto…Piazza Nicosia, colpi d’arma da fuoco, zona bloccata. Lì c’era la sede della D.C.!». Rino corre sul posto. Vede i corpi ammazzati di due agenti. Resta un istante impietrito: «Erano miei amici, ci avevo preso il caffè insieme proprio quella mattina». Fotografa, ma viene fermato da un poliziotto che gli chiede il rullino: «Io lo consegno, ma non era quello con le foto». Le sue immagini, una sequenza sconvolgente di attimi in cui la scena del crimine è ancora calda, vengono pubblicate.
L’istinto del vecchio randagio
Negli Ottanta documenta il fenomeno invisibile dei morti di eroina con immagini crude, devastanti. Nei Novanta l’attentato al Velabro e il processo a Totò Riina che attraverso le sbarre lo saluta e sorride. Nei Duemila i politici, in visita a Roma, che hanno fatto la storia: Reagan, Gorbaciov, Fidel Castro, Obama. «E poi c’è Papa Wojtyla che gioca a bocce in un centro anziani».
Oggi Rino Barillari è conosciuto in tutto il mondo. Oggi i tempi sono cambiati: «Io fotografo anche con il cellulare, il mezzo è uno strumento. L’occhio, quello è insostituibile». Per le strade non accade più nulla, ma l’istinto del randagio non si placa: «La mia passione non era la Dolce Vita, ma la cronaca nera e il terrorismo. Oggi se non vado a caccia di scatti, smetto di vivere». Eccolo con Antonella in giro a notte fonda in cerca di crimini, fatti, notizie. Eccolo, Rino Barillari, quel ragazzo di 14 anni scappato da Limbadi con le scarpe bucate, oggi con 60 anni di storia italiana in tasca e una reflex al collo.
© Riproduzione riservata