La mostra centrale della sessantesima edizione della Biennale d’arte di Venezia (che si apre il 20 aprile e terminerà il prossimo 24 novembre) si è assunta un compito assai arduo, quello di dimostrare concretamente al sistema dell’arte che non c’è alcuna centralità dell’occidente nella storia dell’arte
La mostra centrale di questa sessantesima edizione della Biennale d’arte di Venezia (che si apre il 20 aprile e terminerà il prossimo 24 novembre) si è assunta un compito assai arduo, quello di dimostrare concretamente al sistema dell’arte che non c’è alcuna centralità dell’occidente nella storia dell’arte.
Partire dal passato più recente ma guardarlo da un’altra prospettiva serve proprio a dire che tutte le convinzioni rispetto a un linguaggio evolutivo lineare con cui la storia dell’arte che tutt’oggi studiamo è stata scritta, da un puto di vista universalistico maschile e situato in una parte del mondo, non ha più ragione di sopravvivere.
Essere Stranieri ovunque come recita il titolo della mostra curata da Adriano Pedrosa – ripreso da un’opera di Claire Fontaine – significa allora anche sentirsi stranieri all’interno della propria disciplina, la cui riflessione è interna alla materia stessa, per provare a fare lo sforzo di cambiare il punto di vista rendendosi conto davvero che ciò che abbiamo appreso è solo una delle tante narrazioni possibili.
L’esposizione è strutturata in quattro sezioni principali: un nucleo contemporaneo e tre nuclei storici. Questi ultimi sono dedicati a ritratti, astrazioni e artisti italiani emigrati all’estero e sembrano essere allestiti come dei macigni che pesano sul racconto in cerca di spazio, mettendo in discussione le premesse prima di addentrarsi nell’esplorazione della contemporaneità.
I nuclei storici
Nella sala dell’astrazione, caposaldo del Modernismo occidentale, vengono instillati i primi dubbi, perché se è vero che nell’arte europea e americana l’astrazione è arrivata dopo un processo di semplificazione della forma è altrettanto vero che il linguaggio astratto era invece già ben presente in altre culture visive. Se un’appropriazione c’è stata quindi ha avuto le caratteristiche della rielaborazione di un linguaggio che non deve essere considerato derivativo, lo si vede bene in diverse di queste opere esposte, dove oltre al linguaggio aniconico persistono elementi formali indigeni.
Un discorso non dissimile vale per il linguaggio figurativo che qui è proposto attraverso il soggetto del ritratto. Sebbene sappiamo moltissimo sul fenomeno del Primitivismo e sulle conseguenze che questo ebbe sui linguaggi artistici europei e americani nel Novecento, gli studi su come questi ultimi abbiano agito sulle espressioni artistiche dei luoghi che consideriamo marginali sono molto meno avanzati.
Ecco allora che una quadreria che presenta massicciamente la ritrattistica non occidentale non serve solo a visualizzare concretamente l’idea che nella storia dell’arte esistano altri soggetti ma anche che è giunto il momento di capire cosa le altre culture abbiano scelto di accogliere e metabolizzare all’interno delle proprie pratiche artistiche. Come sostiene in catalogo lo storico dell’arte Kobena Mercer dobbiamo cercare di sfuggire alla logica binaria della contrapposizione perché questa «appiattisce le ambiguità dell’incontro coloniale e mette a tacere gli adattamenti storici dei colonizzati, colonizzandoli di nuovo».
Questa esposizione dimostra l’importanza della transculturalità multidirezionale, evidenzia come i linguaggi visivi si siano spostati e modificati insieme agli artisti ma non solo sulle rotte tradizionalmente approfondite dalla storia dell’arte. La bellissima sala dell’Arsenale in cui, sui dispositivi progettati da Lina Bo Bardi, sono esposte le opere degli artisti italiani che si sono trasferiti all’estero (come Forti, Gnoli, Modotti, Nivola, Tozzi, Sassu ecc.) è lì anche per ribadire questo concetto.
La sezione contemporanea
Una volta rimesse in discussione le premesse storiche è possibile abbandonare lo sguardo paternalistico e apprezzare la sezione contemporanea. A partire dalla sorprendente facciata del padiglione centrale dei Giardini, trasfigurata dal grande murale di MAHKU, le cui forme e colori accesi rispecchiano l’esperienza visionaria che avviene nei rituali dell’ayahuasca (una bevanda psicoattiva).
Tra le opere esposte all’interno c’è il video di Alessandra Ferrini che ricostruisce le relazioni tra Italia e Libia a partire dagli accordi presi tra Gheddafi e Berlusconi. Notevoli sono le stanze che riuniscono il lavoro scioccante di Teresa Margolles e quello di Omar Mismar. La prima espone un lenzuolo su cui è impressa la sagoma lasciata da sangue del cadavere di un giovane migrante venezuelano ucciso al confine con la Colombia mentre il secondo ricostruisce con la tecnica del mosaico una delle economiche coperte in poliestere utilizzate dai rifugiati.
Ancora Kay WalkingStick nei suoi dipinti ritrae i paesaggi naturali americani e reinserisce in queste immagini temi appartenenti ai popoli che erano custodi originali di queste terre. Da non perdere i lavori astratti di una troppo poco nota Nedda Guidi, artista che ha fatto della ceramica il suo mezzo privilegiato (e le cui opere sono esposte anche a Forte Marghera) e i grandi dipinti figurativi ad acquarello di Giulia Andreani. Raffinato il lavoro di Kang Seung Lee che attraverso il disegno, il ricamo ed elementi installativi crea un ambiente in omaggio ad alcuni personaggi ritenuti fondamentali per la cultura queer.
Affascinati i minuscoli dipinti realizzabili in segreto da Rosa Elena Curruchich, artista donna ostacolata nel suo mestiere dalla famiglia e dalla cultura, che nelle sue immagini si concentra sul ruolo della donna nella propria società. Meritano certamente attenzione le grandi tele di Luois Fratino in cui le raffigurazioni del corpo maschile e dello spazio domestico catturano l’intimità della vita queer.
All’Arsenale colpisce il grande arazzo di Bordadoras de Isla Negra, un gruppo di autodidatte attive tra il 1967 e il 1980 che ricamavano tessuti raccontando la vita in Cile. Dana Awartani propone un monumento delicato e commovente in cui attraverso la tecnica del rammendo l’artista ricuce le ferite inferte a dei teli di seta, un’opera dedicata ai siti storici del mondo arabo distrutti dalle guerre e che in questa occasione ha visto l’aggiunta di una stoffa che testimonia la distruzione di Gaza. Bouchra Kahlili ha invece realizzato un’installazione multicanale sulle rotte migratorie nel Mediterraneo raccogliendo le testimonianze dei migranti e trasformando poi i tracciati di questi spostamenti in immagini di costellazioni. Whang Shui mette in evidenza la fluidità delle transizioni culturali attraverso dei dipinti in alluminio e una grande scultura Led. Per concludere: suggestivo l’ambiente creato da Anna Maria Maiolino nel giardino delle Vergini, dove l’artista ha allestito una stanza densamente popolata dal suo lavoro manuale con l’argilla e dalla relazione con il potere trasformativo della natura.
Disobedience Archive
Un importante contributo alla mostra viene da Disobedience Archive di Marco Scotini. Un progetto che dura dal 2005 e che in ogni occasione viene presentato attraverso un display differente all’interno del quale sono fruibili video, anche questi diversi a seconda dell’edizione del progetto, di artisti che esplorano i temi dell’attivismo e della disobbedienza sociale. Per questa occasione vengono presentati quaranta filmati, ospitati all’interno di una struttura circolare concentrica, che fanno riferimento a due nuove macrosezioni dell’archivio: Diaspora Activism, sui processi migratori e sui nuovi modi di abitare il pianeta e Gender Disobedience, sulla rottura del binarismo eterosessuale.
Si è parlato di mancanza di linguaggi innovativi per questa mostra, credo però che il curatore ci stia chiedendo di fare uno sforzo in più e di provare davvero, a partire dal contesto da cui ogni artista proviene (ecco perché è importante continuare a precisare che si tratta di un artista indigeno, di un artista queer oppure di un artista nato in un luogo e poi spostatosi altrove) a decostruire il canone che abbiamo imparato a conoscere e utilizzare per leggere le opere d’arte.
Se provassimo a interpretare questa stessa mancanza d’innovazione da un punto di vista differente potremmo prendere coscienza per esempio del fatto che in alcuni luoghi coltivare la tradizione sia una forma di resistenza. Come spiega molto bene Naine Terena De Jesus (artista e attivista brasiliana) in uno dei testi in catalogo: «Nel contesto indigeno innovare significa mantenere quanto è conosciuto come tradizione, di fronte alla pressione e al restringimento delle pratiche culturali, di fronte all’avanzata delle mega-imprese, delle metropoli e del consumismo. Innovare significa continuare a essere ciò che si è»
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