Una questione di metodo incentrata sul dialogo e l’ascolto reciproco. E una di merito, su cui si può discutere. Il prof Francesco Ramella ricostruisce come è maturata la decisione dell’Università di Torino di ritenere «non opportuna» la firma del bando Maeci 2024 Italia-Israele
Gentile direttore,
ci tengo a farle arrivare la voce di uno dei senatori dell’Università di Torino che ha partecipato alla seduta di martedì 19 nella quale è stata approvata la mozione che ritiene «non opportuna la partecipazione al bando» Maeci 2024 Italia-Israele «visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza». Vorrei fornirle una ricostruzione dei fatti, per come li ho vissuti in prima persona. Ci sono due questioni che il Senato di Torino ha dovuto affrontare in quella seduta. Una relativa al metodo, l’altra relativa al contenuto.
Partiamo dal metodo
Le università italiane, e quella di Torino in particolare, vedono una mobilitazione politica di studenti senza precedenti da diversi anni a questa parte. Sta emergendo una nuova generazione politica. Ci piaccia o non ci piaccia questo è quanto sta accadendo in Italia. Alcune di queste mobilitazioni hanno assunto forme non condivisibili. Tendono infatti a far prevalere retoriche dell’intransigenza e forme di fanatismo che tutti noi dobbiamo assolutamente contrastare.
In molti casi, infatti, chi protestava ha cercato semplicemente di impedire ad altri di parlare. Talvolta a prescindere dalle loro posizioni e storie personali, ma per puro spirito di protesta anti-istituzionale. La grande maggioranza degli studenti, tuttavia, seppure simpatizzando con molti dei temi portati avanti in queste proteste (ambiente, parità di genere, causa Palestinese, fine delle guerre e altro ancora) non sono affatto intolleranti e fanatici.
Dobbiamo fare attenzione a distinguere chi pratica forme violente di protesta, da chi esprime (magari anche rumorosamente) il proprio dissenso, senza sottrarsi al confronto. Se le domande degli studenti di essere ascoltati incontreranno solo una risposta di chiusura istituzionale e la repressione delle forze dell’ordine, temo che ci attenda un’altra “notte della repubblica”.
Il Senato di Torino ha fatto martedì (e altre volte in passato) una scelta diversa. Quella del dialogo. Una scelta non di debolezza, bensì di forza. Dopo l’irruzione in Senato da parte di un gruppo di studenti che sostenevano la causa palestinese e a fronte della loro richiesta di assistere alla nostra discussione relativa al bando Maeci, abbiamo semplicemente risposto che ciò non era possibile. Nessuna decisione e discussione del senato è avvenuta in loro presenza e in un clima di intimidazione o di ricatto. Chi afferma questo dice semplicemente una falsità ed è curioso che nonostante la copiosa presenza di giornalisti e fotografi questa informazione fatichi ad arrivare all’opinione pubblica.
Quello che abbiamo proposto loro è un momento di dialogo al termine dei nostri lavori. In altri termini, ci siamo aperti al confronto e all’ascolto degli studenti ponendo però una condizione: che tutti potessero parlare senza intimidazioni quale che fosse l’opinione espressa.
Per chi prende sul serio il proprio lavoro di docente ed educatore questa è una non-scelta. Fa parte semplicemente della nostra deontologia professionale. Nella riunione a porte aperte (c’erano anche giornalisti) sono intervenuti sia i senatori, che gli studenti. Personalmente ho detto che: a) non credo al boicottaggio delle università israeliane, b) che la libertà di ricerca e di insegnamento sono valori costituzionali intoccabili, c) che gli scambi e le collaborazioni tra le università, la libera circolazione delle idee, oltre ad essere elemento costitutivo di tutte le comunità scientifiche sane, sono anche uno strumento di dialogo e di pace tra i popoli; d) che le politiche di boicottaggio accademico sono inefficaci e pericolose. Chi vuole costruire la pace in Palestina, deve creare ponti di dialogo, non erigere nuovi muri.
Tutti i senatori che io ho sentito intervenire hanno ribadito, con parole diverse, concetti simili. Alcune delle idee espresse dagli studenti non ci convincono ma sono state ascoltate e discusse. Davvero qualcuno pensa che si possa fare diversamente? Che le idee controverse e non-condivisibili in una università debbano incontrare i manganelli?
I senatori dell’Università di Torino, io tra loro, non la pensano così. Ma mi sembra che questa sia stato anche l’atteggiamento, coraggioso, aperto e tenace, espresso dal direttore di Repubblica Maurizio Molinari, da David Parenzo a chi li ha contestati senza consentirgli di parlare.
Veniamo al contenuto
Successivamente il senato si è riunito a porte chiuse e ha votato ad ampia maggioranza dei presenti la mozione relativa alla partecipazione al Bando Maeci (ci sono stati solo un voto contrario e due astenuti) «visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza».
Alcuni senatori hanno sottolineato che alcune delle aree di ricerca presenti in quel bando soprattutto la terza (Ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche, per applicazioni di frontiera, come i rilevatori di onde gravitazionali di prossima generazione) si prestano per utilizzi “dual-use” (civili e militari). Ma il punto centrale della discussione si è incentrato sulla situazione di guerra in corso. Lo scorso ottobre, senza troppo clamore, per lo stesso motivo («il protrarsi degli eventi bellici in Israele-Palestina e in Libano») è stata sospesa la mobilità studentesca verso Israele e Libano. In questo caso lo avremmo fatto per spirito anti-libanese, oltre che anti-israeliano?
Nessun senatore ha inteso la decisione presa martedì come l’adesione al boicottaggio verso le università israeliane. Aggiungo che una “raccomandazione” non rappresenta (almeno così la intendo io) nessun divieto di partecipazione. Semplicemente non ci sembra opportuno, in questo momento, l’avvio di nuovi progetti di ricerca in un paese che è in guerra. Decisione che si può non condividere e discutere, ma che niente ha a che fare con forme di anti-semitismo. Sembra davvero incredibile che di questo si parli oggi sulla stampa in relazione a questa decisione. È un segnale inquietante di “imbarbarimento” e strumentalizzazione del dibattito pubblico.
Mi sia permesso di fornire un ulteriore argomento, che rende l’idea di quanto arbitraria sia questa interpretazione. Il dipartimento di Culture, politica e società, che dirigo, prima dell’esplosione della guerra a Gaza ha aderito ad un accordo di collaborazione con l’Università Ben Gurion. Al momento della deliberazione siamo stati invasi da un sedicente comitato-pro-Palestina. In quel caso abbiamo subito un clima aggressivo e di intimidazione. Nonostante ciò abbiamo deciso di sospendere la seduta e ci siamo aperti al confronto.
Anche lì abbiamo posto come condizione che nessuno venisse ostacolato nella libera espressione delle sue opinioni, altrimenti avremmo sospeso la seduta. Ci siamo aperti al confronto non per debolezza, ma perché ci sentiamo forti delle nostre buone ragioni. Dopo un’ampia discussione, il consiglio di dipartimento ha approvato l’accordo. Che è ancora in vigore e che non ho alcuna intenzione di rimettere in discussione. Non siamo finiti su nessuna pagina di nessun giornale. La banalità della ricerca non fa notizia. Peccato.
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