È accaduto che il ventunenne Filippo Turetta, perso in un groviglio disperato di ossessione e pregiudizi, di inferiorità e potere, di immaturità e ferocia, abbia ucciso bestialmente la propria fidanzata Giulia Cecchettin, programmando il delitto e poi la fuga.

È accaduto che sia stato riacciuffato dalle forze dell’ordine e condotto in carcere, dove attende il processo e la pena che giustamente gli verrà inflitta dalle leggi della civile convivenza. Ha minacciato il suicidio, ma probabilmente gli mancano la forza e anche l’intenzione. È accaduto che i suoi genitori abbiano avuto il permesso di visitarlo in carcere e che il colloquio sia stato ripreso dalle telecamere interne, come si fa, credo, per carpire eventuali ammissioni che possano tornare utili dal punto di vista giudiziario («all’avvocato non ho detto tutto» è una frase che gli verrà chiesto di spiegare).

È accaduto che il padre, Nicola Turetta, abbia rivolto al figlio parole che erano più o meno l’equivalente verbale di un abbraccio in simili circostanze: non sei solo, noi ci siamo e ci saremo sempre, per te ci sarà ancora un futuro.

Ma lo ha detto male, con frasi che letteralmente giustificavano e sminuivano la gravità dell’assassinio: «Non sei l’unico… non sei un mafioso o un terrorista… ci sono stati duecento femminicidi… adesso devi laurearti… non è stata colpa tua, non eri padrone di te stesso».

È accaduto che il settimanale Giallo, diretto da Andrea Biavardi, abbia ottenuto e pubblicato il video che conteneva quelle parole del padre, e che questo abbia scatenato una tempesta mediatica con commenti rancorosi e stupidi («La mela non cade mai lontana dall’albero», cose così); Nicola Turetta ha dovuto scusarsi per aver consolato il figlio con espressioni che sono andate oltre la misura.

La casa di vetro

La prima questione, ovviamente, è quanto schifo faccia la pubblicazione di quel materiale: qualcuno lo ha fatto uscire, e un giornale ha pensato che fosse giusto darlo in pasto ai propri lettori (il che ormai significa darlo in pasto ai social dopo pochi minuti).

«Quando un giornalista ha una notizia, deve pubblicarla comunque»: questo invalso tormentone bisognerà pur discuterlo, ci saranno limiti di decenza, di opportunità, si dovranno pure calcolare le conseguenze.

Il mito della «casa di vetro», per cui nessuno deve avere niente da nascondere, è una pericolosa distopia totalitaria.

Il femminicidio non è un assassinio qualunque, tocca il tema politicamente sensibile del patriarcato e delle inadeguatezze dei maschi che non se ne sentono più all’altezza; ma il vecchio slogan «Il personale è politico» non può significare che in tutta la vastissima regione dei rapporti uomo-donna non resta più nemmeno un angolo di privatezza, né che un ragazzo femminicida non abbia il diritto di essere amato dai propri genitori.

Sono d’accordo con Chiara Valerio quando ha scritto che quelle parole consolatorie di Nicola Turetta non avrebbero dovuto essere sottoposte a giudizio perché noi non avremmo dovuto ascoltarle.

Ciò su cui vorrei soffermarmi sono proprio i verbi al condizionale: il condizionale è il modo verbale del desiderio, in questo caso di un mondo orientato verso la compassione e la distinzione dei contesti. La dura realtà è che ormai i contesti stanno scomparendo nel chiacchiericcio universale, in quella rissa da cortile dove non capire quel che dice l’altro è diventato un punto d’onore.

Inutile sognare, o rimpiangere, una compagine sociale dove certe parole non vengano esposte al pubblico, tanto ormai la tecnologia stessa (sfruttando abilmente le lacune psicologiche dei fruitori) ha fatto in modo che non possano non venire esposte: tutti sapranno tutto di tutti, e tutti si dovranno scusare di tutto.

Molti, discutendo il caso di Nicola Turetta, hanno detto che quel discorso del padre era “semplicemente umano”. Forse la chiave sta nell’aggettivo: esiste ancora qualcosa che possiamo chiamare “umano” nel senso in cui lo intendevamo una volta?

Quando diciamo “umano” tutti crediamo di sapere che cosa significa, ma il termine non è invariabile, come ogni parola che abbia a che fare con la Storia. Forse quel termine dovremmo smontarlo e vedere come sta reagendo alle mutazioni in corso.

La lezione di Terenzio

L’umano che conoscevo io dava spazio al segreto, alla consapevolezza che nel segreto gli uomini coltivano diversità e debolezze, e tragiche mostruosità, con la curiosità di restare aperti a qualunque esperienza; «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», scriveva Terenzio circa 2.200 anni fa; e Montaigne più di 450 anni fa non temeva di confrontarsi con l’umanità dei cannibali.

Ma se ora l’umano viene esposto a qualunque frettolosa liquidazione, se le debolezze ammesse sono soltanto quelle con la patente, se un individuo per sentirsi umano deve somigliare più che può alla proiezione social di sé stesso, se l’identità diventa una figurina per la battaglia delle idee, che resta di quella antica definizione?

Finora si è sempre detto che la democrazia è una conquista della «persona informata», e di solito si dà importanza alla seconda parte, sottolineando come spesso gli individui abbiano scarsa e faziosa informazione; magari sarebbe il caso di mettere a critica anche il concetto di individuo e capire che troppa informazione può deformarlo.

Non sono più una persona intera, se il mio orgoglio di essere me stesso dipende dal mio bisogno di adeguarmi a ciò che la comunità che mi circonda ritiene accettabile.

Le parole private devono restare private, quelle di un amante all’amante, quelle di un padre a un figlio; se i giudici hanno bisogno di conoscerle per far trionfare la giustizia, le intercettino ma se le tengano per sé. Rivendico il diritto di dire anche l’infamia, segretamente, alla persona che mi è più cara; solo così potrà starmi vicino davvero.

Ora che la tecnologia permette di installare nel cervello reti neurali che consentono ai pensieri di comunicare direttamente con un computer, arriverà il momento di una «censura del pensiero», o dei sogni? «Il malvagio fa quel che il buono sogna», diceva Platone. Il nuovo “umano” dovrà parametrarsi con quel che un tempo si chiamava fantascienza?

Letteratura e giornalismo

Scusandosi, Nicola Turetta ha ammesso che «certe cose non si possono dire nemmeno per scherzo»; io credo di sì, signor Turetta, per scherzo si possono dire. Per scherzo o nella satira, o in letteratura; già Freud ci ha insegnato che la letteratura funziona come gli scherzi e le battute di spirito. Perché dunque in letteratura si può dire tutto, mentre i giornalisti non possono pubblicare indiscriminatamente qualunque cosa gli passi sul tavolo di redazione?

La questione è meno scema di quel che possa sembrare. Il giornalismo non è il luogo dell’ambiguità e dell’identificazione; mentre leggo Delitto e castigo, io “sono” il ventitreenne Raskol’nikov e mi interessa più lui che la vecchia usuraia da lui uccisa, ma contemporaneamente capisco di essere sceso nell’inferno dove non c’è Dio né giustizia; e so anche che ne potrò uscire perché quella che sto leggendo è una fantasia.

Il giornalista invece ha a che fare con persone vere, che hanno nome e cognome: violarne l’umanità provoca uno smottamento dell’umanità stessa; le persone vere non possono essere trattate come “carne da romanzo”. Purtroppo ho l’impressione che, progressivamente, non solo si stia perdendo il contesto dei fatti reali, ma si stia anche facendo sempre più fatica a distinguere tra realtà e fiction.

Sono gli stessi utenti dei social che pensano sé stessi come “personaggi”. Con il corollario paradossale che ora è la letteratura a sentirsi in dovere di misurare l’opportunità sociale e di fissarsi dei limiti in ciò che si può dire.

I “true crime” risultano più attraenti delle storie inventate, la letteratura sta entrando in un cono d’ombra; forse l’umano, a cui ci riferiamo ancora, non è che il sedimento depositatosi pian piano nel nostro inconscio culturale, frutto di quella letteratura che ha fecondato nei secoli (come la religione) anche l’immaginario degli analfabeti.

Di confusione si può morire, convinti di star facendo un’opera di bene e nell’attesa di risorgere cambiati nel profondo.

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