Al femminicidio di Giulia Cecchettin è seguita una mobilitazione forte soprattutto da parte delle giovani generazioni, ma la narrazione dei femminicidi continua a innescare la vittimizzazione secondaria
«Negli ultimi anni l’attenzione per il femminicidio da parte dei media è cresciuta; di conseguenza è aumentata anche l’attenzione del pubblico», afferma Monia Azzalini, ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia. Ad aver contribuito è stato internet. «Non siamo più scollegati dal mondo e quindi anche tutte le campagne sui social, pensiamo al Me Too, arrivano facilmente a casa nostra superando tutte le barriere spazio-temporali», continua Azzalini. Nonostante il femminicidio sia entrato nell’agenda dei media, la narrazione proposta non sempre è quella corretta.
L’articolo 17 della Convezione di Istanbul prevede che il settore dell’informazione e della comunicazione e i mass media partecipino «all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità».
Il linguaggio giornalistico, però, continua a ricorrere a schemi maschilisti nella descrizione della violenza di genere tra invisibilizzazione e spettacolarizzazione delle persone che hanno subito la violenza. Semplici casi di cronaca pronti a essere dimenticati a poca distanza di tempo.
Uno spartiacque?
È l’11 novembre 2023 quando – prima con la scomparsa di Giulia Cecchettin, studentessa di 22 anni, e poi con la notizia del suo femminicidio – si riaccende in Italia il dibattito sul tema della violenza di genere. Per Claudia Padovani, vice direttrice del Centro Elena Cornaro – Saperi, culture e politiche di genere dell’università di Padova, la narrazione mediatica di questo evento si è focalizzata «sugli aspetti più visibili: l’intervento di Elena Cecchettin, sorella di Giulia, e l’intervento del papà di Giulia. I media però non colgono quelle che sono le trasformazioni, l’impatto profondo che possono avere fenomeni di questo tipo e la loro narrazione».
Nel corso degli anni il racconto dei femminicidi ha subito dei mutamenti; si è passati «da una narrazione puramente cronachistica che collocava la violenza contro le donne in ambito privato a una maggiore attenzione per il contesto sociale, culturale e storico», dice Azzalini. Sul femminicidio di Giulia Cecchettin oltre al ruolo della famiglia, la ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia ha osservato un coinvolgimento e una vicinanza maggiore determinate dal suo ruolo di studentessa, come tante ce ne sono in Italia.
Punto di svolta nella narrazione «è stato il messaggio scritto da Giulia Cecchettin. In genere le vittime di femminicidio non possono dare la loro voce e invece qui la voce di Cecchettin è stata messa a disposizione grazie a dei messaggi», spiega Azzalini. Avere a disposizione la voce della persona coinvolta contribuisce a restituire dignità, a farla diventare protagonista della narrazione, purché non si strumentalizzi.
«Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha creato un impatto emotivo molto forte», dice la sociologa dei media Marinella Belluati. Poi precisa che bisogna tenere in considerazione anche il contesto: era novembre e si era particolarmente sensibili al tema della violenza di genere. Belluati sostiene l’importanza della reazione della famiglia di Giulia Cecchettin: «Non hanno fatto le vittime “tradizionali”, si sono presi in carico anche politicamente quello che gli è toccato e questo comportamento costituisce una novità».
L’ondata dei giovani
C’è stata una risposta forte da parte della società civile, ma a costituire un elemento peculiare è stata la partecipazione delle giovani generazioni. Padovani dice che quella a cui ha assistito «non è solo una mobilitazione come reazione immediata, ma una richiesta di cambiamento, un richiamare le autorità e le istituzioni ad assumersi la responsabilità, a riconoscere i fenomeni e a intervenire con delle azioni che siano concrete».
Infatti, Padovani da osservatrice privilegiata all’interno dell’università di Padova ha notato «l’esigenza dei ragazzi e delle ragazze di parlare, di parlarsi, di raccontare vicende per costruire una riflessione collettiva. Vedo alcuni elementi di cambiamento culturale – poi aggiunge – c’è il bisogno di sentirsi legittimati, di avere una voce, quindi si cercano e si prendono degli spazi che poi vengono usati per fare delle richieste».
È la stessa situazione raccontata da Belluati che porta l’esperienza dell’ateneo di Torino: «C’è più coraggio, certe storie non possono più essere tollerate e messe a tacere», dice la sociologa anche in riferimento ai casi di molestie sessuali che hanno coinvolto l’università.
Oltre l’emotività
«Il femminicidio è una questione da affrontare culturalmente alla radice e con dei dispositivi normativi», afferma Belluati. La direzione presa va in una tendenza opposta: nonostante l’onda emotiva le misure per il contrasto alla violenza di genere vengono decurtate. Per Belluati è fondamentale che «l’emotività venga gestita, incanalata e trasformata in decisioni pubbliche, in politiche e prese in carico».
È presto per definire Giulia Cecchettin e il suo femminicidio un evento spartiacque nella narrazione di questo fenomeno. Azzalini, Belluati e Padovani sono d’accordo: per fare delle valutazioni bisognerà aspettare e continuare il lavoro di osservazione, ricerca e monitoraggio su come i media trattano il tema della violenza di genere. «Dobbiamo porci anche un problema di come pubblici diversi ascolteranno la narrazione. Adesso c’è una sensibilità diversa da quella di prima, soprattutto da parte del pubblico giovane», afferma Padovani facendo eco alle colleghe.
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