Un uomo di 31 anni si è tolto la vita nel carcere Santa Maria Maggiore, a Venezia, lo scorso 2 giugno. Era romeno, si trovava in custodia cautelare, e proprio mentre lui decideva di legarsi un lenzuolo intorno al collo e togliersi la vita un altro uomo nel carcere di Cagliari faceva lo stesso. Portando così a 38 il numero di suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno.

Un dato terribile da registrare proprio nel giorno della festa della Repubblica. Le carceri da sempre forniscono la fotografia precisa dei problemi non risolti della nostra società: la povertà, l’immigrazione, la tossicodipendenza. Chiunque si candidi a ricoprire un ruolo istituzionale dovrebbe frequentare questi luoghi per essere in grado di fare proposte concrete e mirate su come affrontare le questioni più rilevanti.

Per questo venerdì scorso, da candidata alle elezioni europee e insieme ad alcuni esponenti di +Europa Venezia e radicali Venezia, ero stata a visitare la casa circondariale Santa Maria Maggiore. In questo istituto da poco c’è un nuovo direttore, Enrico Farina, che è al suo primo incarico e ha in mente tanti progetti legati soprattutto al lavoro.

sovraffollamento e indifferenza

L’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario - quello che consente e promuove il lavoro dei detenuti dentro e fuori le strutture - però spesso si scontra con problemi banalissimi di logistica: per esempio quello della disponibilità di una cella in cui il detenuto che lavora all’esterno possa rientrare, rimanendo separato dal resto della popolazione detenuta, come previsto. Così la volontà e la determinazione dei singoli da sola si scontra con i problemi strutturali di un intero sistema.

A Santa Maria Maggiore ci sono 260 detenuti compressi nello spazio che per legge potrebbe contenere al massimo 150. In celle di circa 12mq convivono 6 detenuti. Con letti a castello a 3 piani. Mentre guardo questi spazi fatiscenti penso che sono passati oltre 10 anni dalla cosiddetta “sentenza Torreggiani” con cui la Corte europea dei diritti umani condannava l’ltalia per le condizioni disumane di sovraffollamento e stabiliva il limite di 3mq di spazio per ogni detenuto sotto il quale non scendere.

Le nostre carceri sono nell’illegalità. E l’incapacità istituzionale di gestire queste tragedie fa leva sulle strumentalizzazioni e sull’indifferenza di chi in fondo ritiene che i reclusi sono lì dentro perché «qualcosa avranno fatto». Ma quando quel qualcosa riguarda la fragilità, la malattia, la povertà, il fatto di essere straniero o il fatto di avere problemi psichici o di tossicodipendenza, quando rinchiudiamo in condizioni disumane le questioni sociali che non riusciamo a risolvere, perdiamo tutti.

Cosa fa il governo

Non c’è sicurezza senza legalità. Le proposte del governo di fronte a tutto questo definiscono un degrado istituzionale senza precedenti. Alla crisi del carcere rispondono solo con più carcere e nuovi reati: addirittura arrivando a immaginare il reato di “rivolta in carcere”. Un provvedimento che nelle premesse prende atto delle condizioni di sovraffollamento e carenza di servizi degli istituti penitenziari come causa di proteste in carcere, e che dispone quindi di far fronte a questa situazione con un nuovo reato che con pene fino a 8 anni per i detenuti che facciano anche resistenza passiva agli ordini impartiti.

Ci sarebbe da sorridere, se non fosse che tutto questo causa una lunga scia di morti. Per questo le carceri sarebbe meglio che fossero riportate alla legalità.

© Riproduzione riservata