«Lei lo ha fatto il militare? In un corpo ci si copre e ci si spalleggia, ma io non ho mai picchiato nessuno». A parlare così è un agente di polizia penitenziaria, non uno qualsiasi, ma uno dei primi condannati per tortura in Italia dall’introduzione del reato nel 2017. Mentre il governo presenta il Gio, il gruppo d’intervento operativo, per sedare le rivolte in cella, il poliziotto ci racconta di carcere, violenze, e svela un sistema al collasso. In un attimo si sbriciola la propaganda governativa che inaugura nuovi gruppi mentre mancano 18mila unità.

«La verità è che questo mestiere non lo vuole fare più nessuno, la divisa è diventata troppo pesante», dice. Telecamere, indagini e il reato di tortura hanno fatto emergere casi di violenza dal nord al sud del paese, le ultime sono quelle documentate all’istituto minorile Cesare Beccaria di Milano. Il racconto dell’agente deve per forza partire dai fatti gravi che lo riguardano.

La sentenza

Bisogna tornare indietro di sei anni. Undici ottobre 2018, carcere di San Gimignano, provincia di Siena, Toscana. Un trasferimento di un detenuto da una cella all’altra diventa un caso giudiziario, il primo nel quale viene applicato il reato di tortura, con la condanna di quindici persone, dieci in abbreviato e cinque con rito ordinario. Tra queste l’agente, che ci chiede di non svelare l’identità perché c’è il processo di secondo grado in corso.

La sentenza ha ricostruito i fatti: un cittadino straniero è stato prelevato a forza dalla sua cella e condotto in un’altra, un trattamento inumano e degradante. Nelle motivazioni i giudici, parlando di «vero e proprio esercizio di violenza, di abuso della forza pubblica e di abuso di autorità», scrivono di «un’aberrante opera di pedagogia carceraria». C’è un video dove si vede il capannello di poliziotti attorno al detenuto che crolla in terra, un ginocchio che lo sormonta e il trasferimento nella nuova cella.

L’agente ammette la sproporzione e l’inutile presenza di tutti quegli agenti per quel trasferimento, ma lo giustifica con la chiamata d’emergenza che aveva portato in reparto più personale del necessario. In sostanza, però, si dice estraneo alle accuse.

«Noi a quel detenuto non abbiamo fatto nulla, continuerò a urlarlo ovunque. Botte? No. Il ginocchio sopra? No. Le chiedo una cosa, perché violenze, comprovate da intercettazioni e referti, in altri istituti sono state derubricate a lesioni? Mi riferisco al caso delle violenze nel carcere di Sollicciano. Non c’è uniformità e noi dobbiamo diventare un caso di scuola», dice.

L’agente offre una risposta diversa da quella ricostruita nella sentenza, ma sarà il giudizio d’appello ad accertare la responsabilità penale, quella di primo grado gli ha dato torto su ogni punto.

Dentro i blindo

Emerge un dato dal suo racconto. Il reato di tortura, introdotto nel 2017, mostra il collasso del sistema carcere dove convivono le aree marginali della società e gli anelli ultimi dello stato. «Io non so se il problema è il numero di agenti, io so che noi non avevamo un direttore, non avevamo un comandante, non c’era comunicazione tra l’area educativa, sanitaria e il comparto sicurezza. Vuole sapere la verità? Noi in carcere lavoravamo sopravvivendo», dice.

E i partiti? «Chi di noi era vicino a quelli di governo si è allontanato, troppe chiacchiere. Delmastro (il sottosegretario alla Giustizia, ndr) annuncia assunzioni, il problema è che non c’è un collega che voglia restare. Se ne vogliono andare tutti, tutti», dice.

Quello che racconta l’agente penitenziario è un buco nero, questo è diventato il sistema carcerario italiano. I detenuti sono costretti a convivere con sovraffollamento, cibo indecente, strutture fatiscenti, violenze e con un legislatore che usa il carcere come soluzione salvifica. E gli agenti penitenziari sono l’altra faccia debole del sistema, piegati da turni massacranti, da aggressioni, dalla carenza di organico, e costretti a supplire all’assenza di figure chiave come quelle educative e sanitarie.

La violenza subita o agita è uno dei punti di caduta del sistema, la prova regina del collasso, in carcere si consuma un conflitto tra ultimi che suscita disinteresse e distacco. Le carceri esplodono, a fronteggiare il quotidiano ci sono gli agenti, la catena di comando resta perennemente immune alle fallimentari scelte assunte. Ma cosa succede agli agenti condannati?

«Inizialmente alcuni di noi sono stati interdetti, ma poi siamo stati tutti riammessi in servizio. Il ministero non ci ha sospesi fino a quando lei e il suo giornale non avete pubblicato i video delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma così si amministra la giustizia? La beffa è che alcuni degli imputati per tortura per i gravissimi fatti di Santa Maria sono tornati in servizio, noi, invece, no», ricorda l’agente sospeso e ora condannato in primo grado.

Ma perché in carcere aumentano le violenze, spesso circondate dal silenzio dei colleghi? «Ci si protegge, ci si copre, lo spirito del corpo è così. Lei lo ha fatto il militare?», risponde. I poliziotti sospesi dal servizio ricevono l’assegno alimentare, metà stipendio, e si arrangiano per arrivare a fine mese.

«Io voglio andare in galera se sarò condannato in via definitiva, ma non mi ammazzate prima. L’articolo 27 non vale anche per noi?», si chiede. Ogni tanto l’agente si ferma, prende fiato e lascia spazio ai ricordi. «Una volta in carcere ho salvato un detenuto mentre tentava di impiccarsi, l’ho preso mentre era attaccato. Secondo lei noi siamo pronti a vedere uno che si ammazza? Il mio mestiere è un casino, però si ricordi che in carcere ci siamo anche noi e anche noi ci togliamo la vita. Oggi mi resta solo una cosa: mostrare a chi voglio bene che sono una persona pulita».

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