A poche settimane dalle elezioni presidenziali americane, Mortensen esplora l'ossessione identitaria e la cultura della violenza negli USA con The dead don’t hurt, secondo film da regista, in sala dal 24 ottobre e ispirato alla figura di sua madre. Il ruolo avuto dai film visti nella sua formazione e il progetto di prendersi una pausa. «La vita è breve e a un certo punto valuti se vale la pena spendere tutto questo tempo per realizzare un film»
A poche settimane dalle elezioni presidenziali americane Viggo Mortensen esplora l'ossessione identitaria e la cultura della violenza negli Stati Uniti con il western femminista The dead don’t hurt - I morti non soffrono, il suo secondo film da regista, in sala dal 24 ottobre. L’attore feticcio di David Cronenberg, scrittore, compositore, poeta e fotografo avrebbe potuto accontentarsi della fama acquisita con Il Signore degli anelli e intascare cachet milionari con i soliti blockbuster, invece l’inafferrabile Mortensen, 66 anni, continua da decenni a lasciare il segno nel mondo del cinema con progetti ambiziosi. L’ultimo è un western minimalista alla Howard Hawks con una straordinaria Vicky Krieps.
In Falling (2020), il suo primo film da regista, affrontava l’omofobia di un padre, in questo, la violenza sulle donne. La mascolinità “tossica” è un tema importante per lei?
È stata una scelta istintiva, il mio punto di partenza non è mai ideologico politico o sociologico. Sono naturalmente attratto dai conflitti interni di persone reali con punti di vista diversi. Quando è uscito il mio primo film qualcuno mi ha chiesto: «Ha il diritto di raccontare questa storia?». E mi hanno detto anche: «Non si pente di avere interpretato un omosessuale? Si è appropriato di una storia gay!». E io: «E perché mai dovrei pentirmi?». «Beh, perché ha rubato la parte a un attore omosessuale…». Ho risposto: «Come fa a sapere che non lo sono?». Non sa che faccia ha fatto il giornalista! In Falling ci sono molti ricordi vividi della mia infanzia e scene ispirate dal rapporto che avevo con i mei genitori, ma la storia è una finzione. Nel mio nuovo film, il personaggio di Vivienne è direttamente ispirato a mia madre, volevo capire il punto di vista di una donna comune che rimane sola in una terra arida, in un mondo brutale di uomini, che cosa voleva dire essere una donna nel vecchio West del XIX secolo. È una storia che potrebbe accadere ancora oggi in diverse parti del mondo, basta pensare a molte donne in Ucraina che affrontano la vita mentre i compagni sono in guerra.
Lasciare la propria compagna sola in una terra arida e brutale per andare a combattere da volontario non è un proprio un bel gesto… come giudica Holger Olsen, il suo personaggio?
Come gli dice Vivienne: «Gli uomini sono così stupidi, e tu sei un bastardo egoista…». Olsen è mosso da una scelta etica, come per chi parte in Ucraina o a Gaza perché è contro l’occupazione. Da ex soldato che ha già combattuto sente la responsabilità morale di lottare contro i confederati. Ma alla fine non pensa alla sua compagna, quindi è decisamente un egoista. È solo quando torna da lei che si pente di essere partito in guerra. La cosa bella nel loro rapporto è il perdono e l’accettazione di entrambe le parti. Il mio film è una storia d’amore, in cui il perdono di sé e dell'altro è più importante della vendetta.
The dead don’t hurt è ispirato alla figura di sua madre che, come lei, era un’appassionata di cinema, fare questo mestiere e in particolare questo film è un modo per rimanere in contatto con lei?
Probabilmente, non ci avevo pensato ma la mia esperienza da spettatore è molto legata a mia madre con cui, fin da piccolo, andavo sempre al cinema dopo scuola. Anche se non assomiglia a mia madre, c’è qualcosa in Vicky Krieps, che mi commuove quando mi guarda nei panni di Holger Olson sullo schermo, ritrovo lo sguardo di mia madre durante la proiezione di un film, il modo che aveva di guardare me o i miei fratelli… forse ha ragione, il cinema la mantiene in vita.
Qual è stato il fattore scatenante che le ha dato voglia di vivere altre vite sullo schermo?
A un certo punto, quando avevo 21 o 22 anni, ho capito che fare il critico dilettante o il cinefilo insieme a mia madre non mi bastava più, volevo scoprire cosa rende un film così reale. Era un periodo della mia vita in cui venivo catturato emotivamente da film come La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer, o Sinfonia d’autunno di Bergman o ancora Il Cacciatore di Cimino. Ricordo di essere rimasto colpito dall’incredibile interpretazione di Jessica Lange in Frances di Graeme Clifford e dalla straordinaria Meryl Streep in La scelta di Sophie.
Ancora una volta dei personaggi femminili molto forti… Sono le donne ad averle trasmesso il desiderio di diventare attore?
Credo di sì, ovviamente ci sono diversi attori uomini che mi hanno ispirato: Marlon Brando in Fronte del porto o Montgomery Clift in Il fiume rosso, sono personaggi che hanno una componente femminile molto interessante. Un altro grande film che mi ha dato voglia di fare l’attore è stato Una giornata particolare di Ettore Scola. La verità è che sono sempre rimasto più colpito dalle donne al cinema. Quando ho visto per la prima volta Meryl Streep in Il Cacciatore, ho pensato: «Sì, De Niro è fantastico, Christopher Walken, John Savage, Cazale, sono tutti straordinari, ma lei…». C'era qualcosa in Meryl Streep, anche nei suoi silenzi, da cui ero davvero attratto. Dopo l’università in Danimarca mi sono trasferito a New York nell’81 con la mia ragazza dell’epoca. Lavoravo in un cinema d’essai che proiettava ogni sera un doppio spettacolo, vedevo film brasiliani degli anni ’70, film francesi o italiani, e per me la magia passava soprattutto attraverso gli attori e le attrici. È solo iniziando a lavorare che mi sono reso conto che tutto nasce da una sceneggiatura e che oltre al regista, anche gli altri attori possono migliorarti, così come il montaggio che può rimediare a interpretazioni mediocri.
Perché è passato alla regia, è stufo di recitare?
No, amo entrambe le cose, ma fare un film può essere veramente frustrante: passi anni a cercare i finanziamenti e quando li trovi e riesci a fare un buon lavoro, e a ricevere ottime reazioni da parte della critica e del pubblico durante le presentazioni (per questo film ne ho fatte 90 in giro per il mondo!), arriva il momento dell’uscita in sala e non riesci a posizionare il film nei cinema a causa della crescita dello streaming. È demoralizzante, dopo averci messo tanta energia e tempo, rischi di rimanere invisibile. E non si tratta di una questione di ego o di riconoscimento personale perché dietro a un film c’è il lavoro sfiancante di molte persone che rischiano personalmente se il film non fa abbastanza soldi.
Lei è un regista molto esigente, che cura in maniera ossessiva ogni dettaglio, lo è anche con se stesso come attore? Si piace sul grande schermo?
Non sono mai completamente soddisfatto ma riesco a convivere con me stesso, molti non riescono a vedersi ma io non ho nessun problema a guardare, anche centinaia di volte, il mio lavoro come attore e come regista. Rivedere permette di capire, imparare e correggere in un futuro cose che avrei potuto fare meglio. Comunque è come se ogni volta vedessi un film diverso, perché la percezione di me stesso cambia sempre a seconda del pubblico, del posto in cui vengo proiettato o di come mi sento.
Crescere tra vari continenti, portare in sé culture diverse, non smettere mai di viaggiare nel tempo e nello spazio attraverso i suoi personaggi può essere destabilizzante, alla fine sente di aver rafforzato la sua identità attraverso il cinema?
Forse mi sono dato anche troppo al cinema al punto che a 66 anni, il giorno del mio compleanno, mi perdo in interrogativi come: «Dove sono arrivato? Che sto facendo? Cosa voglio fare?». Facendo un bilancio del mio passato sento di avere investito così tanto impegno, attenzione, tempo ed energia nel raccontare storie, che forse continuo a perdere molte altre cose della vita. Stamattina mi sono chiesto: «Se smettessi completamente di recitare, dirigere o fare qualsiasi altra cosa attinente ai film, chi sarei?». Non avevo una risposta… il che mi preoccupa. Questa estate, sono tornato per la prima volta dopo anni, dove vivevo e mi sono messo a sistemare la casa, a lavorare la terra, a curare gli alberi e la foresta, ero davvero felice. Ma a un certo punto ho dovuto smettere per tornare a promuovere il mio film. Amo ancora recitare e fare film, ma allora perché in questo momento non sono felice? Forse perché ho ripreso ad assaporare la vita fuori dal cinema? Non lo so, quello che è certo è che devo fermarmi un poco, almeno per adesso, la vita è breve e a un certo punto valuti se vale veramente la pena spendere tutto questo tempo e energia per realizzare un film.
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