Tra i tanti meriti da attribuire alle vittorie olimpiche italiane, c’è sicuramente anche quello di riattualizzare il dibattito sulla cittadinanza. Se si scorre la lista della delegazione italiana ai giochi di Tokyo, ci si imbatte in cognomi come Jacobs, Herrera Abreu, Hooper, Kaddari, Lukudo, Eyob Ghebrehiwet Faniel, Abdelwaheb, Zaytsev e tanti altri. A grandi linee, un terzo delle nostre atlete e dei nostri atleti ha origini che certo non affondano nella storia d’Italia. Eppure sono italianissimi e quando gareggiano o cantano l’inno sul podio, il cuore di chi guarda la tv non può che battere più forte.
L’Italia dello sport non è lontana dall’Italia che viviamo tutti. Nel paese risiedono ufficialmente più di 5 milioni di stranieri, circa 900mila dei quali sono alunni con background migratorio. Si tratta di bambine e di bambini nati e cresciuti nella penisola che devono aspettare i diciott’anni per fare domanda di riconoscimento della nazionalità italiana (niente d’automatico, tutto sempre in mano alla burocrazia).
Ecco, per una volta proviamo a dare loro voce, proviamo a immaginarceli attraverso le parole delle nostre atlete e dei nostri atleti durante le interviste di questa estate: ragazze e ragazzi che spesso parlano un italiano con accento lombardo, romano, toscano, eccetera.
Dare voce
Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha evocato per questi giovani lo “ius soli sportivo”, ovvero il riconoscimento automatico della nazionalità italiana per chi ha compiuto 18 anni e un giorno. Niente domanda, burocrazia, prefetture o ministeri. Solo una tutela automatica per ragazze e ragazzi che dal 2016, pur non essendo ancora formalmente italiani, possono gareggiare per le rispettive federazioni sportive.
Ma non basta. Perché le legittime esigenze del mondo sportivo non possono essere derubricate dalla politica a faccenda di settore. I problemi dei nostri giovani atleti sono esattamente gli stessi problemi di un’intera generazione e la risposta dovrebbe essere data a tutti. Durante la scorsa legislatura, una legge sulla cittadinanza è stata approvata alla Camera per poi arenarsi al Senato.
Al tempo si parlava di “Ius Culturae”, ovvero di un diritto di cittadinanza legato all’istruzione. Si prevedeva che potessero chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni e che avevano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni oppure superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). Gli altri, seppur nati all’estero e compresi in un’età tra i 12 e i 18 anni, potevano ottenere il passaporto se residenti per almeno sei anni e se capaci di finire ciclo scolastico.
Lo “Ius Culturae” o "Ius Scholae” è ancora oggi il compromesso minimo di un paese che voglia dirsi civile. In primo luogo perché conferirebbe la cittadinanza a persone che hanno già una forte identità italiana. In secondo luogo perché forse avrebbe un peso sui risultati scolastici: tra i 18 e i 24 anni, i nostri ragazzi senza cittadinanza italiana che non hanno un diploma sono il 36,5 per cento contro una media italiana dell’11,3 per cento e una media europea del 10 per cento.
Dunque, per questi giovani occorre una nuova legge sulla cittadinanza così come occorre il ricorso a veri e propri patti integrativi di comunità. Enti locali, istituzioni, pubbliche e private, realtà del terzo settore e scuole dovrebbero sottoscrivere specifici accordi al fine di mettere a disposizione di questi bambini una vera e propria rete di referenti che li accompagni e li incoraggi, preveda per ognuno di loro un coordinamento specifico con obiettivi precisi, li aiuti a inserirsi nei contesti più diversi, da quello scolastico a quello sportivo.
Sta per prendere il via il Recovery Plan e con esso il più grande Piano per l’infanzia 0-6 anni della storia recente. La questione della cittadinanza dei bambini con background migratorio non può essere messa da parte. Una nuova legge sulla cittadinanza è senz’altro indispensabile. Dobbiamo investire sugli italiani del futuro, su chi viene da altrove ma sarà parte viva dell’Italia che verrà.
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