È tornato in sala a distanza di 52 anni Sbatti il mostro in prima pagina, in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna. Intervista al regista:. «Oggi ci sono le fake news, allora la manipolazione della verità era molto artigianale. Ho invidiato Bertolucci: vederlo spiccare il volo con un film interpretato dal mio idolo Marlon Brando mi mise in discussione»
Famiglia, chiesa, lotta di classe, psicoanalisi e potere sono alcuni dei leitmotiv del cinema dell’impavido Marco Bellocchio che in cinquantanove anni di carriera ha militato contro ogni forma di oppressione politica e sociale, smontando film dopo film i simboli del conformismo Italiano. Con Sbatti il mostro in prima pagina del 1972, tornato in sala il 4 luglio in versione restaurata in 4K dalla Cineteca di Bologna, l’autore ci catapulta in una redazione a Milano negli anni di piombo per affrontare un tema ancora scottante: la collusione tra media e potere politico.
Che effetto le fa oggi tornare a quel periodo della sua vita?
È come tornare a un mondo che non c’è più, sia come idee che come strumenti di comunicazione. Oggi ci sono le fake news, allora la manipolazione della verità per fini politici era molto artigianale, avveniva attraverso la stampa che aveva un vero potere. Il film si ispirava al delitto sessuale di Milena Sutter. Doveva girarlo Sergio Donati ma dopo uno scontro violento con Gian Maria Volonté, la produzione mi chiese di subentrare. L’idea di strumentalizzare il fatto di cronaca a fini politici, sbattendo in prima pagina in pieno periodo elettorale un militante della sinistra extraparlamentare, è stata aggiunta dopo, quando ho chiesto a Goffredo Fofi di aiutarmi con la sceneggiatura. Riconosco nel film una certa brutalità ideologica, un certo schematismo. Per me il film non è stato solo un esercizio di militanza, ma anche una sfida, un voler provare, dopo un film complicato come Nel nome del padre che non andò bene al botteghino, a fare un film impegnato, di genere, popolare con una star come Gian Maria Volontè.
È stato il suo primo e unico film su commissione, come è andata con Volonté?
È andata bene, abbiamo collaborato, ci siamo rispettati, perché volevamo portare a casa il film. Mi fa molto piacere che chi vede oggi il film, anche i giovani, riconosce in quella storia così semplice qualcosa che stiamo vivendo oggi in modo totalizzante: il controllo sempre più minaccioso della verità attraverso la tecnologia.
Ma lei da regista è cosciente che in fondo anche un film è un atto di manipolazione…
Mi è sempre più chiaro che il voler ubbidire a una certa ideologia limita la propria immaginazione, per paura di veicolare qualcosa di politicamente sbagliato. Quando feci Nel nome del padre con mio fratello Piergiorgio, c’erano molte riflessioni sulla lotta di classe. Il film era ambientato in un collegio gestito da preti in cui a un certo punto anche la manodopera si ribella. Ma poteva un sottoproletariato senza coscienza di classe ribellarsi realmente al potere? All’epoca ci perdevamo in queste discussioni. Anche nella mia lunga analisi collettiva con lo psicanalista Massimo Fagioli, mi sono confrontato con una forma di ideologia. L’idea di salute mentale imponeva in qualche modo il rifiuto di certe libertà che oggi invece sono del tutto scontate come quella dell’essere omosessuali senza per questo essere considerati malati o perversi.
A proposito di malattia mentale, quanto le è servita personalmente l’esperienza che ha vissuto nell’ospedale psichiatrico di Colorno nel ‘74 per il documentario Matti da slegare che fece insieme a Rulli, Petraglia e Silvano Agosti? Un film a sostegno di Basaglia contro un modello di psichiatria repressivo.
È stato molto interessante perché in qualche modo mi riguardava, conoscevo la malattia mentale all’interno della mia famiglia. È stata un’esperienza collettiva affrontata inizialmente con timore. Io avevo un certo distacco, come se la malattia mentale fosse una serie di immagini di pazienti cronici di fronte all’obiettivo. Solo dopo è iniziato il mio percorso più interno, più mio.
Il cinema è stato ed è terapeutico per lei?
Beh sì, non dico che se non avessi fatto cinema sarai diventato matto ma certamente è un’arte terapeutica. Da regista sono costretto a confrontarmi con gli altri. A volte riesco a scappare o a nascondermi, ma quando hai a che fare con gli attori è difficile. Il set ti obbliga ad avere il coraggio di affrontare l’altro.
Ha mai avuto paura di sé stesso vedendo i suoi film?
Non paura... semmai scontentezza. Oggi rifarei diversamente alcuni miei film, col senno di poi mi dico che avrei dovuto essere più esigente, anche verso la produzione… Anche il grandissimo Buñuel era sempre scontento, diceva che si poteva sempre fare meglio.
E lei è sempre scontento?
Sì, ma non in modo compiaciuto, la scontentezza mi spinge a non rassegnarmi perché la vita ha un suo tempo e bisogna a un certo punto fare i conti con il declino fisico e mentale, per questo cerco sempre cose nuove.
Infatti lei è uno dei registi più giovani del cinema Italiano...
Aldilà dei risultati, mi interessa la ricerca, c’è sempre qualcosa che manca e che devo trovare.
A proposito: a che punto è il suo progetto su Enzo Tortora?
Spero che si farà con la Rai, tratta temi importanti e va fatta con le forze finanziarie necessarie. Una serie su Tortora significa raccontare l’Italia, la televisione, non è una serie intimistica, ci vogliono risorse.
Quali sono i suoi film che ama di più?
Ci sono film a cui sono più affezionato: Marx può aspettare è un piccolissimo film che mi ha permesso di scoprire e rappresentare cose intime che non avevo mai affrontato con quella profondità, anche se il tema del suicidio era ricorso nella mia filmografia. Sono molto legato anche a Il diavolo in corpo, che ha messo a durissima prova la mia identità di regista. Mi riconosco il coraggio di averlo difeso contro tutti. I pugni in tasca invece fu un’esperienza più incosciente e gioiosa, era il mio primo film e l’ho fatto di getto. Volevo capire chi ero, e mi sono accorto di avere una certa naturalezza nello stare sul set, circondato da tante persone, mentre molti registi vivono malissimo la fase delle riprese.
Il secondo film è sempre un banco di prova per un regista, dopo il successo folgorante di I pugni in tasca è entrato in crisi?
Il mio secondo film La Cina è vicina fu un grande successo di pubblico in Italia al punto che alcuni mi accusarono di essermi venduto al mercato. Poi venne il ‘68 e la crisi fu globale. Nel ‘69 entrai nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti, la mia formazione borghese mi faceva sentire inadeguato rispetto a quello che stava avvenendo nel mondo, da lì la militanza politica che però incontrò la tragedia familiare del suicidio di Camillo, mio fratello gemello. Solo alla fine del ‘69-‘70 ricominciai a ragionare in maniera più autonoma e cominciai a elaborare il film Nel nome del padre, che però non aveva la libertà o quell’incoscienza di I pugni in tasca. Era un film di crisi, aveva tempi sbagliati, di tipo ideologico, che ho ridotto per la versione presentata a Venezia quando ho ricevuto il Leone d’oro alla carriera.
Quali sono i film che le hanno dato voglia di fare cinema?
Mi hanno colpito quelli con Marlon Brando: Fronte del porto, che avrò visto a tredici anni, Giulio Cesare, Il tram che si chiama desiderio. Avevo una vera attrazione per il mestiere d’attore e sono entrato nel corso di recitazione al Centro Sperimentale, poi ho capito che era meglio fare il regista.
A proposito di Marlon Brando, fu colpito dallo scandalo di Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci?
Mi colpì, ma non dal punto di vista della morale, il vero scandalo fu il sequestro e la messa al rogo del film. Provai una grande invidia per il successo internazionale di Bernardo, siamo cresciuti insieme e vederlo spiccare il volo verso il mondo, con un film interpretato da Marlon Brando che era l’idolo della mia adolescenza mi mise in discussione. Anche se non sono competitivo e la mia strada è da sempre europea, quel film mi ricordava quello che io non ero e che non sarei mai riuscito a fare.
Lei ha spesso usato il cinema come strumento politico, visto il crescendo e la gravità dei conflitti internazionali non crede che ci sia una rimozione collettiva di quel che vuol dire essere in guerra?
È vero, ed è grave perché mai come in questo momento storico abbiamo accesso all’informazione. Conviviamo con guerre atroci in tutto il mondo, con l’orrore e l’ingiustizia. In passato la militanza era andare sul fronte, andare in Vietnam. Io non sono uno da teatro di guerra, cerco di andare avanti con un lavoro di confronto e di scontro con un potere che non mi piace. Ci sono scelte nella vita personale per andare contro in modo pacifico e nonviolento… c’è questa possibilità. Ma parlo di un destino personale, di un uomo di 84 anni ancora in buona salute fisica e mentale.
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