- È pienamente comprensibile che le donne reagiscano con decisione se durante un evento un’imprenditrice arrivi ad affermare che nella sua azienda, la Betty Blue, si assumono solo lavoratrici che hanno superato i quarant’anni.
- Il fatto stesso che l’affaire Franchi sia stato prevalentemente inquadrato entro gli schemi della discriminazione femminile la dice lunga sulla considerazione che in questo paese è riservata al lavoro.
- Spesso sono le donne a pagarne le conseguenze, ma è in generale la debolezza dei lavoratori a essere sfruttata da una certa imprenditoria.
Possibile che nessuno abbia detto con chiarezza che le dichiarazioni della stilista-imprenditrice Elisabetta Franchi, prima ancora di essere sessiste e retrograde, si fondano su una visione schiavistica del lavoro?
Certo, è pienamente comprensibile che le donne reagiscano con decisione se durante un evento organizzato per raccontare la presenza femminile della moda italiana un’imprenditrice del settore arrivi ad affermare che nella sua azienda, la Betty Blue, si assumono solo lavoratrici che hanno superato i quarant’anni – le «anta», nella sbrigativa etichetta suggerita dall’incontenibile relatrice – perché avrebbero compiuto «tutti e quattro i giri di boa» che consentono di lavorare «acca ventiquattro»: hanno raggiunto la maturità, si sono sposate, hanno fatto figli e si sono separate. Inoltre, ci ha tenuto a precisare la stilista, non va dimenticato che le donne hanno «un preciso dovere, che è quello scritto nel dna»: accudire i figli e «accendere il camino a casa».
Dinnanzi a questo vero e proprio inno al patriarcato le polemiche sono divampate immediatamente e non si sono placate neanche quando, per tentare di scrollarsi di dosso l’accusa di sessismo ed evitare una campagna di boicottaggio dei suoi negozi, Elisabetta Franchi si è affrettata a precisare che si era «espressa in modo inappropriato», ma intendeva semplicemente dire che lavorare nel mondo della moda comporta spesso «grandi rinunce riguardo alla propria sfera privata», sacrifici che «non tutte le donne posso affrontare, anche per l’impossibilità per molte di loro, pur volendo, di rientrare al lavoro dopo la maternità per mancanza di supporti famigliari e sociali che impedisce loro di proseguire con successo il proprio percorso professionale».
Visione retrograda
Indubbiamente le frasi in questione riflettono una visione della donna quantomeno primonovecentesca e, in un mondo normale, non si capisce perché i quattro passaggi della vita candidamente descritti dalla stilista emiliana dovrebbero caratterizzare la vita delle donne più di quella degli uomini. Ed evidentemente un paese tanto normale non siamo, se è vero il dato fornito dall’Inps per il quale negli ultimi sei anni solo il 20 per cento degli uomini ha chiesto al proprio datore di lavoro di fruire del congedo di paternità perché non è visto di buon occhio da parte di imprese e colleghi. E chissà – vien da chiedersi – quanti fra gli uomini dipendenti della Betty Blue avranno avuto il coraggio di chiederlo, il congedo.
Insomma, se sui social ha tenuto banco la polemica sul sessismo con tanto di hashtag di tendenza #senzagiridiboa, il punto centrale dovrebbe essere un altro. Il discorso sulle «anta» ci dice prima di tutto quel che Elisabetta Franchi si attende dai suoi dipendenti: che lavorino «acca ventiquattro» e non abbiano diritti da reclamare o pretese da avanzare.
Lo testimonia anche l’ultima tegola che proprio l’altroieri ha raggiunto la stilista-imprenditrice, condannata per condotta antisindacale dal Tribunale del lavoro di Bologna, che le ha contestato di aver ingiustamente sanzionato alcune lavoratrici dello stabilimento di Granarolo che avevano deciso di scioperare contro la decisione di allungare l’orario di lavoro anche al sabato pomeriggio per soddisfare un picco della produzione.
E il fatto stesso che l’affaire Franchi sia stato prevalentemente inquadrato entro gli schemi della discriminazione femminile la dice lunga sulla considerazione che in questo paese è riservata al lavoro, oggetto di una degradazione senza fine che porta le imprese a vivere diritti delle persone con sempre maggiore insofferenza.
Spesso sono le donne a pagarne le conseguenze, ma è in generale la debolezza dei lavoratori a essere sfruttata da una certa imprenditoria per cavare dalle loro prestazioni il maggior profitto possibile, anche a costo di mortificarne deliberatamente la dignità.
«Abbiamo creato un sistema per disperati», si compiaceva una manager di Uber intercettata dalla procura di Milano nell’inchiesta sui rider, fiera di poter contare sull’estremo bisogno di lavorare di alcuni richiedenti asilo appositamente reclutati in centri di accoglienza per pagarli tre euro a consegna, derubarli delle mance e ricattarli. La frase è agghiacciante, ma è quella che meglio descrive il funzionamento del mercato del lavoro in una larga fetta del tessuto produttivo italiano.
Infrastruttura paraschiavistica
È in questo contesto che le dichiarazioni di Elisabetta Franchi vanno lette. Come ha minuziosamente ricostruito Luca Ricolfi in un suo recente saggio, l’intera società italiana si regge oggi su una «infrastruttura paraschiavistica» dalle dimensioni imponenti, che coinvolge fino a tre milioni di lavoratori intrappolati in ruoli servili o caratterizzati da ipersfruttamento.
Si tratta sempre più spesso di persone che non riescono a trovare nel lavoro un modo per affrancarsi dalla povertà, ingrossando la categoria dei cosiddetti working poor. Dal rapporto di Oxfam presentato il 12 maggio a Firenze si apprende che in Italia un lavoratore su otto vive in una famiglia con un reddito disponibile insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base e l’incidenza della povertà lavorativa, misurata in ottica familiare, è cresciuta di tre punti percentuali in poco più di un decennio, passando dal 10,3 per cento del 2006 al 13,2 per cento del 2017.
Il fenomeno colpisce di più, in termini relativi, chi vive in nuclei monoreddito, chi ha un lavoro autonomo, e chi, tra i dipendenti, lavora nel corso dell’anno in regime di tempo parziale. Restando ai singoli lavoratori, cresce la percentuale di quelli che devono accontentarsi di retribuzioni basse, passando dal 17,7 per cento del 2006 al 22,2 per cento nel 2017, arrivando a superare il 50 per cento tra gli impiegati prevalentemente in tempo parziale.
Dinnanzi a questi dati sarebbe auspicabile che il ministrodel Lavoro Andrea Orlando riesca a coronare i suoi sforzi di far al più presto approvare dalla maggioranza una legge sul salario minimo, senza aspettare che siano gli obblighi europei a imporlo. Anche perché l’iter a Bruxelles è già partito: la Commissione Ue ha presentato, nell’ottobre 2020, una proposta di direttiva sui «salari minimi adeguati», attualmente all’esame presso gli organi dell’Unione.
La fissazione di una soglia salariale minima non risolverebbe in ogni caso il problema delle tutele per i lavoratori autonomi, considerato che l’Italia è il paese con il più alto tasso di partite Iva in Europa, quasi cinque milioni, il 22 per cento delle persone in età lavorativa.
Si tratta di una categoria particolarmente esposta alla «povertà lavorativa» perché spesso dietro la formale autonomia della prestazione lavorativa si nasconde, nei fatti, una condizione di assoluta dipendenza economica dai committenti. A questo proposito alcuni studiosi suggeriscono di affiancare alla proposta sul salario minimo un provvedimento che introduca meccanismi di soglie tariffarie minime legali, variamente articolate, e costruite aventi come parametro, in relazione al tipo di attività svolta, i contratti collettivi dei lavoratori dipendenti.
Insomma, scandalizzarsi per la concezione della donna che risulta dalle dichiarazioni di Elisabetta Franchi è giusto. Ma non vedere che quel modo di gestire la propria impresa mortifica il lavoro è già di per sé un problema. Significa che ci siamo assuefatti allo sfruttamento.
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