Gli ultimi cinque anni sono stati segnati da un fondamentale cambio di paradigma nella valutazione delle politiche di genere. Ma restano ostacoli evidenti, come nel caso del principio del consenso eliminato dalla direttiva europea sulla violenza. Ma un arretramento non è mai definitivo
Non è un 8 marzo come tanti, quello che celebriamo oggi. L’anno che abbiamo alle spalle è stato segnato da eventi che hanno offerto un senso drammatico alle questioni del divario di genere, alle affermazioni di libertà e diritti delle donne in Europa quanto nel resto del mondo, allo stesso modo con cui celebriamo questa giornata internazionale. I temi sono molteplici: le differenze che ancora persistono nelle retribuzioni, gli ostacoli che impediscono ancora la propria affermazione professionale, il ruolo delle donne nell’economia e nelle strutture politiche e sociali, la violenza di cui restano vittime nonostante il trascorrere dei decenni.
Non risponde al vero che nulla sia stato fatto o nulla, quantomeno, si tenti. In questa legislatura ormai al termine, il Parlamento europeo è intervenuto su queste questioni con un’intensità inedita e non è contestabile che ciò sia avvenuto soprattutto in virtù del fatto che la rappresentanza femminile al Parlamento europeo è superiore al 40% del totale, la percentuale più alta mai raggiunta, ed è superiore a quella presente nei parlamenti nazionali, sia a livello europeo che mondiale.
Dagli effetti economici della crisi pandemica al divario retributivo, dalla partecipazione femminile nell'economia digitale all’equilibrio tra lavoro e vita privata, dall’empowerment al contrasto della violenza, questi cinque anni sono stati segnati da un profondo, epocale cambio di paradigma nelle scelte adottate e negli orientamenti assunti: tenere conto dell’impatto di genere per ciascuna di esse. Non si tratta più, quindi, di rivolgere lo sguardo a un universo separato dal contesto, ma di valutare concretamente ogni scelta, in qualsiasi sfera essa ricada, sulla base di previsioni di genere necessariamente differenti.
Ma non nascondo né le difficoltà e gli ostacoli nei quali ci siamo imbattuti e nei quali ancora ci imbattiamo per affermare questo nuovo paradigma, né i concreti risultati che appaiono e sono ancora del tutto insufficienti. Due esempi su tutti, che hanno riguardato più da vicino la mia diretta esperienza istituzionale: l’ottusa resistenza al principio di quello che in Italia fu ribattezzato nella formula “il giusto mezzo”, per la stesura di Next Generation e dei piani nazionali; il risultato assai deludente del compromesso raggiunto in Consiglio dai governi nazionali sulla Direttiva di contrasto alla violenza contro le donne e alla violenza domestica.
Nel primo caso, ricordo ancora bene il sentimento con il quale furono accolte le nostre proposte: l’accusa più gentile era quella di voler dedicare risorse ai corsi di taglio e cucito. Ovviamente il Parlamento quanto la Commissione recepirono quelle indicazioni, le fecero proprie e ne seguirono atti di concreto indirizzo. Oggi facciamo i conti con piani nazionali che ancora faticano a valutare il loro impatto in termini di genere, con l’aggravante, almeno per il Pnrr italiano, della blanda osservanza delle clausole occupazionali che prevedono assunzioni di personale femminile nei contratti pubblici. Bisognerà lavorare ancora, e ancora, affinché le indicazioni europee vengano correttamente e concretamente osservate dai governi nazionali.
Nel secondo caso abbiamo assistito ad una resistenza ancora più clamorosa, grave, ingiustificabile. La Direttiva sulla violenza alla quale il Parlamento europeo aveva lavorato rappresentava uno snodo normativo essenziale a conclusione del percorso di concreta ratifica della Convenzione di Istanbul. Il cuore della proposta prevedeva un principio indiscutibile: in assenza di esplicito consenso della donna l’atto sessuale è da considerarsi violenza, stupro, in ogni caso, senza che questo debba essere sottoposto ad umilianti dimostrazioni di prova.
Il Consiglio, su spinta di vari governi, anche di alcuni progressisti, ha scelto di eliminare questo principio dalla sua versione che con ogni probabilità sarà quella definitiva. Non sarà questa lotta di civiltà però a fermarsi, e mi sono abituata, nel tempo, a non considerare definitivo nessun arretramento, almeno fino a quando non si resta soli. In questo caso le testimonianze e l’incoraggiamento di tante cittadine, associazioni e personalità dell’attivismo femminista mi inducono a continuare e a riproporre con forza il tema, nelle sedi e nelle forme che saranno possibili.
È questo il senso di questo 8 marzo: partecipazione, lotta per ciò che è giusto.
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