Restò, questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che anche il più giusto dei movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco
Una trentina d’anni dopo, ragionando sul movimento contadino in Sicilia, mio padre scrive:
I risultati sono calcolabili dal punto di vista sociale e politico. Credo che si possano fare molte considerazioni, se guardiamo all’insieme del movimento e ai risultati che si sono raggiunti.
Il primo risultato è che, dopo la Liberazione, negli anni dal ’44 in poi, in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno, per la prima volta furono costruite organizzazioni di classe nelle campagne con una struttura unitaria e collegate con il movimento nazionale; e questa è la grande portata della costruzione della Confederterra nel sud... Possiamo dire che il PCI in Sicilia è figlio, in larga misura, di quel grande movimento; in decine di comuni della Sicilia noi non esistevamo prima.
Siamo diventati partito di massa nel fuoco di quel combattimento: decine e decine di quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze, che venivano mandati avanti a dirigere; io ricordo il vice segretario regionale del PCI, nel periodo ’47 e ’48, il compagno Mazzetti, un militante bolognese del periodo clandestino, che era stato mandato in Sicilia per aiutare Li Causi nella formazione di quadri. Il suo ufficio sembrava un ufficio matricole, perché convocava ragazzotti di diciotto, venti anni e gli dava il gallone di ufficiale e li mandava a fare i dirigenti di un’organizzazione di partito, sindacale o cooperativa, perché si trattava di costruire ex novo tutto questo e lui puntava moltissimo su questi ragazzi.
Nel suo ragionamento non mancano le note di autocritica, quando sottolinea:
Cominciamo con il valutare lo schieramento delle forze sociali che noi mettevamo in campo allora. La nostra strategia si rivolgeva al bracciante e al contadino povero, ai senza terra, e lasciava fuori la massa importante dei coltivatori diretti, quelli che già la terra la possedevano, i piccoli proprietari, i grossi fittavoli, cioè lo strato più ricco di capacità imprenditoriali dell’agricoltura siciliana e meridionale. C’era qui, una manifestazione di estremismo, di settarismo, presente in quel periodo nel nostro movimento.
Restò, questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che anche il più giusto dei movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale. Di questo atteggiamento, di cui anch’egli era stato vittima agli inizi, intuiva i rischi derivanti dalle scelte minoritarie e i pericoli dell’irrilevanza dell’azione politica.
Nel ’51, uscito dal carcere e riabbracciata la famiglia, papà riprese da dove era stato interrotto. Dopo poco chiese al partito di potersi impegnare nel sindacato, convinto che bisognasse liberare il movimento sindacale da vizi di corporativismo e burocratismo.
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