Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Sembrava incredibile, ma il 1992 stava per terminare. A noi era sembrato un anno eterno, per tutto quello che avevamo combinato, per l’estate infinita in cui sembrava avessimo intrappolato l’Italia. Poi era arrivato l’autunno, era calata una strana sensazione di tregua. Tante cose si muovevano, lo sapevamo.

Ci interessava poco. La mamma ci aveva insegnato a curarci solo dello stretto necessario, per non fare mala vita, prenderci pensieri che non erano nostri e poi perché per ogni cosa il Signore manda qualche provvidenza. Non si era fatta la tradizionale riunione prima di Natale, e un po’ ci era mancata. Niente passito con i tagliancozzi, niente mangiate, niente dolci con i fichi, niente porcospini.

Ognuno rimaneva a casa sua, chi da latitante, chi da uomo libero ma ancora per poco, tutti confortati e annoiati dai nostri affetti. Guardavamo i presepi, ci sembravano un carcere. Ogni tanto ci concedevamo la tv; le donne quell’anno impazzivano per il film della guardia del corpo, quello con la cantante famosa. E a noi facevano sorridere tutte queste americanate di grandi amori e sparatine, noi che le guardie del corpo sapevamo davvero come farle fuori, senza ultimi baci, canzoni strappalacrime e battute memorabili.

Anzi, se avessimo dovuto mettere in fila tutte le ultime parole che avevamo sentito, a parte i «vi prego, pietà», i «nooo» con abbondanza di vocali e di spavento, i pianti, i singhiozzi, la bava e il piscio, a parte tutto questo, sarebbe venuta una serie di banalità terribili.

A ogni modo, nessuno si azzardava a convocare riunioni: saremmo stati un obiettivo troppo facile, per quella metà di Stato che aveva deciso di farci la guerra (l’altra metà, l’avete capito, ci cercava per ben altro…). «Dopo le feste, dopo le feste», ripeteva Matteo a chi di noi gli chiedeva se c’era in ballo altro, quali erano le prossime tappe della nostra guerra, i fortini da espugnare, le persone da fare: l’elenco era lungo, avevamo appena cominciato.

Ma niente, Matteo ci diceva: pensate a passare delle buone feste a casa, riposatevi, ne avete di bisogno, poi vedremo. E dopo le feste in effetti la riunione fu convocata: non era la Commissione, non era la Supercosa, non aveva più nome né identità ed erano saltate anche le forme, e questa già era una cosa rivoluzionaria. Tant’è che non sapevamo che nome dare a quell’incontro e l’avevamo chiamato «incontro in grande stile».

Si decise per vederci a gennaio, il 15 a Palermo, nella zona di San Lorenzo. Sapete com’è finita, no? Quel giorno Totò Riina venne arrestato. Con Matteo eravamo a Palermo proprio quella mattina. Avevamo appuntamento nello spiazzale di un centro commerciale, in periferia, per cambiare auto e giro.

Piccole prudenze: non sapevamo mai il luogo esatto delle riunioni. Solitamente posteggiavamo in un punto e ci venivano a prendere. Aspettammo qualche minuto. Alla radio si parlava della crisi del partito socialista di Craxi, dei nuovi arresti di Tangentopoli, della crisi economica. I picciotti di San Lorenzo arrivarono con molto ritardo, ma non vennero a prenderci. Già ancora prima di scendere dall’auto ci urlarono: «Hanno arrestato lo zio Totuccio! Andate! Andate! ’U pigliaru!».

Alle otto del mattino di quel venerdì, i carabinieri dei reparti speciali avevano preso Totò Riina fra i palazzi della rotonda di Via Leonardo da Vinci, vicino il Motel Agip. Già giravano voci di come lo avevano catturato: messo a terra, la faccia nella polvere, una pistola automatica puntata alla tempia. Lui che aveva prima mostrato una patente falsa, e poi era stato costretto ad ammettere: sì, sono io. Eravamo nel panico, Matteo invece no. Ci disse: restiamo. Ma dove? Qui, aspettiamo.

Ma aspettiamo cosa? Viremo se è vero, innanzitutto. Ed era vero. Perché poi arrivò la notizia alla radio, con il signor Riina che era stato seguito dai carabinieri su dritta di Balduccio Di Maggio (che si era pentito), e non aveva opposto resistenza ma si era limitato a dire: state sbagliando persona. E i giovani che scendevano in strada a festeggiare. E magari anche da dove ci eravamo nascosti sentivamo gli strombazzamenti lancinanti dalla Questura, le code festose tipo che l’Italia aveva vinto i Mondiali.

E per un momento ci guardammo tutti, per un altro pensiero che ci era venuto in testa. Ed era un ricordo di qualche mese prima, subito dopo l’attentato al giudice Paolo Borsellino.

La gente non sembrava più n noi. C’erano le manifestazioni, le catene umane. E ci eravamo detti: passerà, come sempre. Calati junco. Solo che poi, a un certo punto, erano spuntati pure i lenzuoli bianchi dai balconi, e anche se non ne capivamo il significato, ci sembrava un affronto, ci faceva un po’ paura. Non ricordavamo che il colore bianco potesse essere così minaccioso. Ma la cosa allucinante è che pure nel quartiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano, c’erano persone che mettevano lenzuola ai balconi per dire no alla mafia, e questo non era sopportabile.

Su suggerimento di Matteo, che nel frattempo li ospitava al mare da noi, i Graviano acchiapparono a Gaspare Spatuzza, uno che non si scantava di nulla, e gli dissero: segnati nome e cognome e attività e patronimico e magari quanti peli nel culo hanno di tutte le famiglie che osano esporre i lenzuoli a Brancaccio, così si insegnano. Vacci a tuppuliare.

Spatuzza, che venerava Matteo, aveva accettato di buon grado l’incarico, ma era tornato sconfortato qualche giorno dopo: non posso appuntarmi tutti i nomi, sono troppi. Questo pensavamo, mentre intorno tutto il mondo girava, e per la prima volta da un po’ di tempo sembrava non girare a verso nostro. Matteo ci richiamò alla realtà: ora possiamo andare. Ma dove? A Castelvetrano? No, a casa di Riina.

Ma ci vuoi morti? Ma non è che Matteo ci aveva venduti come qualche cornuto aveva fatto con lo zio Totuccio? Era un pensiero che ci faceva sudare freddo. Nel villino dove abitava la famiglia di Riina, quando arrivammo, pensavamo di trovare la polizia, e che gli avremmo fatto questo bel regalo di Natale in ritardo con la nostra cattura, pure. E invece trovammo i nostri. C’era un gran traffico.

Qualcuno era addirittura con il furgone. Avevano scardinato pure una cassaforte da una parete con la fiamma ossidrica. Stavano ripulendo tutto. Biglietti, pizzini, documenti. Tutto. Magari imbiancavano le pareti. Matteo fu chiamato in disparte. Molte carte se le prese lui. Ormai il passaggio di consegne si era consumato.

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