Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco


Ho compiuto 55 anni il 25 giugno del 2011. L’età che mio padre non ha raggiunto. Mio padre, nato il 24 dicembre del 1927, è stato ucciso il 30 aprile del 1982; ne aveva, da pochi mesi, compiuti 54.

Non c’è tragedia peggiore, per i genitori, di quella di seppellire le creature alle quali hanno dato la vita. Lo considerano un evento innaturale. Spesso è un’esperienza lacerante, che apre una ferita che può non rimarginarsi mai.

I figli devono fare i conti con l’idea della morte dei loro genitori ed è naturale che chi li ha messi al mondo muoia prima di loro. Non sempre ci si arriva preparati.

Eppure, che la vita di mio padre fosse in pericolo – da quando era tornato a Palermo, nell’autunno del 1981 – era evidente, a lui per primo.

Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra.

L’occasione fu il congresso regionale del Pci, nel quale era candidato alla segreteria. Era stato eletto dopo un confronto congressuale molto serrato: si doveva scegliere tra lui, un uomo dell’ala riformista, che veniva considerata la destra del partito, e un giovane, Luigi Colajanni, della sinistra.

Mia madre non l’aveva presa affatto bene. Sapeva che non avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si sarebbe divisa tra Roma e Palermo, per stare il più possibile accanto a lui.

Così avevo iniziato a scrivere, circa tre anni fa, era l’autunno del 2011, sotto la spinta dell’approssimarsi del trentesimo anniversario dell’omicidio di Rosario Di Salvo e di mio padre.

In genere, gli anniversari cosiddetti tondi stimolano i sentimenti e la voglia di ricordare. Per me si trattava di vincere le mie stesse resistenze, alimentate da un senso di riservatezza, che mi avevano impedito, per lungo tempo, di prendere carta e penna e raccontare come avevo vissuto l’omicidio, elaborato il lutto, vissuto l’assenza e cercato di raccogliere l’eredità di mio padre.

Un’eredità pari alla sua storia, al suo impegno e a quanto questo impegno avesse prodotto in termini politici e, per quanto mi riguarda, si fosse riflesso nella mia educazione.

Ero attratto dall’idea di mettere alla prova la mia capacità di ricostruire una presenza, di misurarmi con l’immagine di mio padre e, cosa più importante, di rendere evidente il senso della sua esistenza, dal mio punto di vista. Obiettivi ambiziosi, che farebbero tremare le vene e i polsi, ma a me bastava molto meno per rendermi conto che passione ed entusiasmo non sarebbero stati sufficienti. Dovevo essere in grado di guardare, senza cadere nell’illusione degli specchi, e per riuscirci dovevo sapere dove guardare.

Pur conscio che ogni paragone con mio padre sarebbe stato, oltre che fuorviante, sicuramente fuori luogo, in trent’anni non ero riuscito a trovare la chiave di lettura che mi avrebbe consentito di scrivere di lui.

Ogni volta che ho provato, mi rendevo conto di volerci, soltanto, provare ma non mi sentivo pronto e, dopo aver abbozzato un indice, annotato qualche spunto, cancellato un’idea che non mi convinceva più, insoddisfatto, mi bloccavo. 2

Non credo fosse la paura di riaprire vecchie ferite, di rinnovare il dolore, visto che ogni volta ero felice di ricominciare, convinto che fosse la volta buona e che quella che volevo raccontare era una bella storia, anche se conclusasi tragicamente.

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