Subito dopo l’arresto si diffuse in Cosa nostra la convinzione che il Riina fosse stato consegnato ai carabinieri. D’altronde, sospetti di tal genere circolavano in modo incontrollato e potevano riguardare chiunque, tanto che – ha riferito Giuffré – anche sullo stesso Provenzano circolavano voci insistenti che lo accusavano di passare informazioni ai carabinieri...
Su Domani posegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini
Le numerose, gravi, contraddizioni in cui sono incorsi il Di Matteo ed il Di Maggio impongono la trasmissione dei verbali delle dichiarazioni dalle stessi rese al p.m. per l’eventuale esercizio dell’azione penale, essendo evidente che i medesimi hanno dichiarato il falso, o nelle precedenti occasioni in cui furono escussi oppure al presente dibattimento.
In merito, invece, a come i carabinieri riuscirono a localizzare Salvatore Riina, il Di Maggio ha confermato di non aver mai saputo dove esattamente abitasse il boss, ma di aver indicato alle forze dell’ordine solo la zona ed il nominativo di coloro che ne curavano la latitanza (il Sansone ed il De Marco).
Tale circostanza è stata confermata dagli altri collaboratori escussi (nello specifico La Rosa e Di Matteo), i quali, riferendo il contenuto di conversazioni avvenute negli anni successivi con il Di Maggio circa il suo ruolo nella vicenda, hanno precisato che quest’ultimo dichiarò sempre di non sapere come gli investigatori fossero pervenuti all’individuazione del complesso di via Bernini.
Antonino Giuffré ha dichiarato, inoltre, che, nel corso degli anni, si erano formati in seno a “cosa nostra” due schieramenti contrapposti facenti capo al Riina (che poteva contare su Bagarella, Brusca, Messina Denaro, i fratelli Graviano) ed al Provenzano (cui si erano legati lo stesso Giuffré, Carlo Greco, Pietro Aglieri), tra i quali si era determinato “un solco”, via via aggravatosi nel tempo, sin dal 1987, e che, con l’arresto del boss corleonese, esplose tra i due la rivalità su chi dovesse prendere “le redini” dell’organizzazione a livello provinciale e regionale.
Subito dopo l’arresto - ha aggiunto il collaboratore - si diffuse in “cosa nostra” la convinzione che il Riina fosse stato consegnato ai carabinieri.
D’altronde, sospetti di tal genere circolavano in modo incontrollato e potevano riguardare chiunque, tanto che – ha riferito il Giuffré – anche sullo stesso Provenzano circolavano dal 1990 voci insistenti, provenienti dall’ambiente mafioso catanese ed in particolare dalla famiglia Mazzei e da Eugenio Galea (vicinissimo al boss Santapaola), che lo accusavano di passare informazioni ai carabinieri, come commentò in più occasioni con altri appartenenti all’organizzazione mafiosa (Giovanni Marcianò, i Ganci) e con lo stesso Provenzano che diverse volte gli chiese se credesse a queste illazioni.
Voci su Ciancimino
Anche su Vito Ciancimino, che era persona particolarmente vicina al Provenzano, si diffusero delle “voci” in ordine a presunti contatti che aveva avuto con esponenti delle forze dell’ordine, e serpeggiava il timore che il medesimo potesse iniziare un percorso di collaborazione.
In proposito, quando uscì dal carcere a gennaio 1993, prima che Salvatore Riina fosse catturato, Antonino Giuffré chiese al Provenzano come fosse “combinato” Vito Ciancimino, ottenendo la risposta che era “andato in missione” per cercare di sistemare le cose all’interno dell’organizzazione, che stava vivendo un periodo storico particolare.
Null’altro è stato riferito sul punto, né dal Giuffré né dagli altri collaboratori, mentre Giovanni Brusca ha saputo (o voluto) soltanto riferire che spesso il Riina gli esprimeva delle imprecisate “rimostranze” nei confronti di Vito Ciancimino.
Salvatore Cancemi ha riferito che Salvatore Biondo il 15 gennaio 1993, mentre si trovava, assieme a Raffaele Ganci e ad altri, in una villetta nei pressi di San Lorenzo dove avrebbe dovuto svolgersi una riunione della commissione convocata dallo stesso Riina, portò la notizia che il boss era stato arrestato su viale Lazio.
Successivamente, apprese dai giornali che il Riina aveva trascorso la latitanza in via Bernini, vicino a dove abitava anche sua figlia.
Quando a luglio 1993 decise di costituirsi, presentandosi ai carabinieri di Piazza Verde a Palermo, raccontò che il Provenzano, in una riunione svoltasi a maggio 1993 con la sua partecipazione, quella del Ganci e di La Barbera Michelangelo, aveva dichiarato che “c’era la possibilità di prendere vivo il capitano Ultimo” (nome in codice dell’imputato De Caprio) o, in alternativa, di ucciderlo, senza però specificare i motivi per i quali intendeva prenderlo vivo.
Anche Giuseppe Guglielmini ha riferito che, nel corso di una riunione, Giovanni Brusca ed in seguito anche Giovannello Greco gli dissero che si stava cercando questo “capitano Ultimo”, che rappresentava un “chiodo fisso” per Provenzano, al quale si sarebbe potuti arrivare tramite una persona che conosceva un amico del capitano, con il quale costui giocava a tennis, e che avrebbe potuto fare sapere dove i due si sarebbero recati a pranzare.
Infine, Raffaele Ganci, figlio di quel Raffaele Ganci a capo della famiglia mafiosa del quartiere della “Noce” a Palermo, ha dichiarato di aver saputo dal padre che, nel corso di una riunione con il Provenzano successiva all’arresto del Riina, si era convenuto di sequestrare il “capitano Ultimo”, ma che poi non se ne fece più nulla.
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