La voce del direttore di una piccola emittente, alla quale fornivamo servizi giornalistici e qualche trasmissione musicale, che senza lasciarmi il tempo di dire né ah né bah, tutto concitato dice: Avete saputo che hanno ucciso Pio La Torre? Credo di aver risposto solo con un grazie, senza farmi riconoscere...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà parte del libro Sulle ginocchia, edito da Melampo, riguardo la storia di Pio La Torre scritta dal figlio Franco
Erano le otto e mezzo circa di venerdì 30 aprile del 1982 e, come tutte le mattine a quell’ora, stavo andando in via Palestro 84, dove si trovava la sede di RadioBlu, la radio del Pci di Roma, che dirigevo. Via Palestro distava da via Panisperna 72, dove abitavo con mamma e papà, un quarto d’ora di passeggiata.
Quello a RadioBlu era stato il mio primo lavoro vero. Come raccontavo, avevo cominciato sei anni prima, non avevo ancora compiuto vent’anni, quasi per caso o, meglio, per curiosità. Poi mi ero talmente appassionato da abbandonare la prospettiva di diventare professore di storia, l’altra passione che mi accompagnava dai tempi dell’infanzia. Infatti, man mano che saliva la passione per il lavoro radiofonico, scemava quella per la carriera universitaria, complice la percezione, che mi ero fatta, che per avviarmi in quel percorso sarei dovuto diventare portaborse di un professore ordinario, come quelli che vedevo in facoltà, e la cosa non la potevo digerire.
Quindi, dopo i primi due anni di università, durante i quali avevo messo in fila dodici esami, con la media del ventinove e virgola, cominciai a rallentare ed entrare nella logica che gli esami sarebbero serviti a rinviare il servizio militare; mi lanciai nel rutilante mondo delle radio libere, come venivano definite, che fiorivano in tutta Italia, inaugurando la stagione dell’informazione alternativa a quella della Rai e di una programmazione meno vincolata da schemi culturali ed ideologici.
RadioBlu era, in pieno, l’espressione di quanto un famoso cantautore italiano, Eugenio Finardi, intonava: “Se una radio è libera ma libera veramente, piace anche di più, perché libera la mente”...
RadioBlu riusciva a coniugare con gusto, sapere e passione, una buona informazione e una programmazione musicale d’eccellenza. Vi si è formata una generazione di professionisti, che oggi si è affermata in posizioni di tutto riguardo, senza fare nomi, per non dimenticare nessuno e per evitare autocompiacimenti di sorta, ma posso tranquillamente dire che molti dei migliori, che vediamo o sentiamo all’opera, sono passati di lì.
In quell’appartamento, al terzo piano di via Palestro, si trovavano gli studi di diretta e registrazione e le redazioni musicale e d’informazione. All’ingresso, di fronte a destra, c’era un telefono pubblico a gettoni, un parallelepipedo di color giallo argentato, con la feritoia in alto, dove inserire i gettoni, un ultimo modello, allora, di quelli che non se ne vedono più, perché superati dalla tecnologia e dal design. Lo utilizzavamo non tanto per chiamare, quanto per le telefonate urgenti in entrata, quelle dei nostri inviati o delle emittenti a noi collegate.
Insomma un telefono di servizio, che era più facile trovare libero, rispetto alle altre tre linee telefoniche di cui la radio disponeva.
Avevo appena accostato la porta d’ingresso alle mie spalle, quando il telefono pubblico iniziò a squillare. Ero solo nella stanza e mi venne spontaneo andare a rispondere. Sollevata la cornetta, riconosco, dall’altra parte, la voce del direttore di una piccola emittente, alla quale fornivamo servizi giornalistici e qualche trasmissione musicale, che senza lasciarmi il tempo di dire né ah né bah, tutto concitato dice: Avete saputo che hanno ucciso Pio La Torre?
Credo di aver risposto solo con un grazie, senza farmi riconoscere, di aver riappeso la cornetta, fatto dietrofront, aperto la porta d’ingresso e sceso le scale.
Da quel momento sono entrato in una sorta di trance ed i ricordi si accavallano, per poi rarefarsi e, quindi, confondersi l’uno con l’altro. Ho perso una chiara e definita dimensione temporale.
Ad un certo punto mi ritrovo in cima a via Panisperna. I negozi, che si affacciano sulla strada, mi sembrano tutti chiusi e, davanti al portone di casa, zia Agata e zio Totino guardano su e giù per la via, cercando di scorgere mia madre, che arriva di lì a poco. Non sa ancora nulla ma non ci mette molto a capire che c’è qualcosa che non va e la conferma la ha quando sua sorella l’abbraccia.
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